Interviste

Musica e identità: Cosimo Colazzo e la sua Francisca

Intervista a cura di Matteo Macinanti. In: “Quinte parallele”, rivista online / 23 novembre 2020 / [Interviste, Prima pagina] 

Qui in formato PDF.

Entrevista a Cosimo Colazzo

Intervista a cura di Maria del Carmen Asenjo Marrodan. In: “Espacio sonoro”, revista de música actual  /  N° 31, enero 2016 / ISSN 1887-2093.

Música surgiendo del silencio y la espera. Introducción al mundo sonoro de Cosimo Colazzo

Intervista a cura di Francisco Martín Quintero. In: “Sul Ponticello”, revista online de música y arte sonoro / III época / N° 12, enero 2015ISSN: 1697-6686

La creatività non può darsi senza forma

Intervista a cura di Marco Russo e Salvatore De Salvo Fattor, compresa nel volume: Compositori d’oggi: Trento, a cura di Marco Russo. Edizione: Trento, UCT, (MUSICATEATRO), pagine: XIII + 367, formato: 17 x 24 in brossura. ISBN: 88-86246-74-9.

Cosimo Colazzo Compositore

Intervista a cura di Luca Ribustini. In “Prove aperte”, Anno 11 numero 119 – Marzo 2005

C. Colazzo e la relazione con la propria creatività. Aprire la musica al confronto culturale e sociale

ntervista a cura di Salvatore De Salvo. In “UCT”, n. 346 – Ottobre 2004


INTERVISTA

LA CREATIVITA’ NON PUO’ DARSI SENZA FORMA

Colloquio con Cosimo Colazzo, a cura di Marco Russo e Salvatore De Salvo Fattor

Intervista compresa nel volume: Compositori d’oggi: Trento, a cura di Marco Russo. Edizione: Trento, UCT, (MUSICATEATRO), pagine: XIII + 367, formato: 17 x 24 in brossura. ISBN: 88-86246-74-9 (pp. 273-304)

[De Salvo] Ci può dire del suo percorso di compositore, partendo da quando era — presumo — allievo di conservatorio, sino a che ha intrapreso la attività professionale?

[Colazzo] Non affronto quanto riguarda — vi accenno soltanto — il rapporto con mio padre, musicista, che mi ha avviato, piccolissimo, alla musica. La musica coincide sostanzialmente, radicalmente con la mia vita. Qualcosa di più e di diverso, quindi, dal frequentare una scuola. Qualcosa di più e di diverso di un mestiere.

C’era sempre un altrove, che mi faceva problema, che mi attraeva. Sin da quando ero studente. E in certo senso questo è stato il mio atteggiamento di sempre, qualcosa che mi è rimasto, al di là della scuola. L’agire contemporaneamente in più contesti, uno prossimo, come della vita contingente, un altro diverso, dell’alterità, da ricercare, perché apre a nuovi mondi. Credo che quest’atteggiamento corrisponda a una qualche marca della mia sensibilità: l’idea che vale anche ciò che è ordinario e quotidiano; e poi la fantasia, l’utopia, il radicalmente altro: luoghi opposti o solo differenti che tento comunque di coniugare.

A pensarci, anche la mia scrittura è così. Ripulisco sempre più la mia scrittura, da ogni incrostazione effettistica, da ogni sovrastruttura, da ciò che può residuare come contatto con tendenze, mode, insegnamenti, ecc.. Anche un materiale povero, comune, può promuovere un senso nuovo. È una questione di contesti, delle intenzioni che lo animano. Anzi, un tale materiale sa rifrangere una quantità di suggestioni, proprio per la sua storia, per l’esperienza che lo carica, lo polarizza. Così è da cercare lentamente, con pazienza, spesso in dettagli, in varchi inattesi, un percorso di nuove storie, per un qualcosa che non è nuovo in sé, ma è tale per il modo di proporsi, per la volontà, che prende ad animarlo, di concepirsi come in uno stato di “attesa”, o di movimento non diretto, aperto a molte direzioni.

Da docente, tento — non so se vi riesco — di far intuire come fuori dal mondo della scuola, da ciò che la scuola richiede come uno standard di formazione, c’è altro, di molto impegnativo e difficile, da affrontare, una letteratura vastissima da studiare, e il mettersi in questione direttamente, con la propria creatività. Non so dire se vi riesco, perché so — forse l’esperienza me lo ha fatto capire — quanto siano delicati i meccanismi della didattica, e rendere troppo fluidi i confini delle cose, instabile il terreno, possa essere ugualmente dannoso, portare ugualmente all’impotenza, quando si vorrebbe, invece, esaltare la creatività che ognuno possiede come suo talento. È difficile il lavoro didattico, e bisogna anche qui avere capacità di mediazione, stare insieme dentro e fuori la disciplina.

[De Salvo] Le influenze degli insegnanti di conservatorio sulla sua formazione (dal punto di vista tecnico, estetico, ecc.).

[Colazzo] I miei insegnanti di conservatorio, certo, m’hanno dato, ma non so in che misura. Dopo il Conservatorio, per la composizione, c’è stato il perfezionamento con Salvatore Sciarrino. Qui riconosco, per certo periodo, un lascito, che ha operato forte dentro di me.

Ciò che vale, penso, è il lavoro paziente, di sperimentazione lenta, di riflessione e approfondimento, sulla pagina, ascoltando il suono, le musiche, e così pure se stessi, il dialogo con gli altri. Dove nulla è precostituito. Solo la volontà di ricercare a tutt’orizzonte, e insieme il senso della necessità di leggere tutto alla luce di una propria identità, mobile quanto si vuole, ma presente e attiva, in quanto pronunzia di una sensibilità, che traduce e assorbe a suo modo ciò che incrocia ed incontra.

Questo lavoro non corrisponde a un mestiere: s’ha rapporto con lati oscuri di sé, e con la solitudine.

[De Salvo] Gli influssi dei musicisti del XX secolo e delle diverse scuole sul suo stile.

[Colazzo] È difficile dire. Dico, Nono… Le ultime opere di Nono, per me, sono liriche, intense, fragili, precarie, s’aprono sempre a qualcosa di inatteso, pur essendo fatte di poco. Suoni isolati a volte, appesi non si sa dove, a cosa. Per tutto questo che ho detto, Nono. Altri nomi: dovrei pensarci meglio. Non mi vengono in mente… Feldman, forse. Sento che qualche legame sotterraneo c’è, con Feldman, con il suo suono, che è molto particolare, sospeso, e tenuto come a mezz’aria: immobile, contemplativo, ma anche desto, non compiuto, e aperto a molte trasformazioni. Poi, dal minimalismo mutuo qualche tecnica, che sento congeniale; ma c’è anche una forte distanza poetica dal minimalismo: un senso dell’interiorità e della soggettività, che è diverso. Il minimalismo è molto vita urbana, ritmo, superficie, geometrie molto contrastate. Mentre io voglio produrre il senso della musica come di un’onda, e di qualcosa che s’inarca per immergersi subito dopo, andare in profondità, in mondi di dentro, e vagare e dilagare. Di Sciarrino, vale il suo richiamo ai criteri della percezione, il suo senso della forma. Filiazioni dirette, comunque, rispetto a qualche tendenza, a qualcuno, non saprei indicare decisamente. C’è studio portato in tante direzioni, e molto anche fuori della musica. Tutto questo certo innerva anche la mia musica.

[De Salvo] Lei, come docente, tenta — come ci ha detto — di far intuire che fuori dal mondo della scuola, dagli standard formativi che essa richiede, c’è altro, di molto più impegnativo e difficile, da affrontare, una letteratura vastissima da studiare. Secondo lei, in genere, gli allievi che si diplomano, oggi, al conservatorio sono in grado di interpretare con sufficiente preparazione la musica contemporanea o c’è ancora una certa difficoltà ad avvicinarsi al linguaggio musicale di avanguardia? È possibile, in sintesi, trovare, oggi, dei buoni esecutori di musica contemporanea, senza dover ricorrere per forza a musicisti di grande esperienza?

[Colazzo] Rispetto al conservatorio, alcune cose, in questi anni, a seguito di una legge di riforma che prefigura un cambiamento radicale nel panorama dello studio professionale della musica, e di molte sperimentazioni che vengono messe in opera, stanno cambiando, per aggiornare l’istituzione rispetto a un mondo che muta assai velocemente. Al Conservatorio di Trento è stata varata un’importante sperimentazione, dedicata alla composizione, cui ho lavorato molto. Si tratta di un Triennio superiore sperimentale, che reca il titolo “Composizione e Linguaggi musicali contemporanei”, il quale, come prospetta la denominazione, intende concentrare il lavoro di studio e di ricerca intorno al Novecento e alle produzioni odierne. Muove dall’idea che la creatività compositiva, da un certo punto in poi, quando lo studio si fa approfondito, con forti apporti critici, non può più declinarsi nei termini di una disciplina monolitica, ma deve aprirsi al mondo delle creatività contemporanee, e declinarsi, quindi, nei termini di un percorso, di una ricerca abbastanza aperta e problematica. Il piano di studi ideato è veramente innovativo, nei contenuti come nella struttura. E anche le intenzioni e le strategie che riguardano la messa in opera del progetto, sono radicalmente nuove e rimescolano fortemente le abitudini con cui si guarda al lavoro in Conservatorio.

Comunque – questa è una posizione che ho sempre tenuto, in tutte le sedi in cui si è discusso delle prospettive che riguardano il Conservatorio nuovo e riformato – non sono per le novità che facciano piazza pulita del passato, che rigettino tutto ciò che è stato, alla stregua di anonima spazzatura.

Per la composizione è un passo importante, che si rivolga decisamente l’attenzione alle creatività contemporanee. Che senso può avere, infatti, una formazione alla composizione che non si ponga attivamente e decisamente la questione di una produttività non più accademica, ma personale, e inoltre in dialogo con quanto si propone come ricerca di linguaggi nuovi, originali, nei contesti artistici?

Detto questo, sono anche convinto che ogni tentativo di innovazione deve fare i conti con le prospettive che il passato continua a proiettare in avanti. Significa interagire con tali prospettive, muoverle, conservare alcune cose importanti, altre destinarle a un’inerzia che le porta a scomparire. Poco utile è un’azione che, per seguire le sirene del nuovo, delle mode, comprima indifferentemente il passato, senza ragionarvi sopra, e tranciando via sprezzantemente ogni rapporto. Più in generale, non mi pare positivo rompere recisamente il filo del rapporto che il Conservatorio ha con la sua storia. Che è una storia non da poco. Questa storia è parte di un’identità, che ora va fortemente riletta, reinterpretata, ma non può essere smarrita, per assumere nuove identità fittizie. Ma vengo alla sua domanda, in un senso più particolare. È chiaro che è difficile trovare negli allievi interpreti una competenza adatta ad affrontare certe pagine difficili e un po’ ermetiche della musica d’avanguardia. Ma si tratta di capacità e di esperienze che maturano lentamente. E non possono darsi svincolate da uno studio diretto verso il repertorio più abituale. La formazione deve avvenire necessariamente avendo ad oggetto un repertorio e esperienze musicali in certo modo formalizzatesi, stabilizzatesi. E pian piano aprirsi, sapendo suscitare curiosità e forti motivazioni, a quel repertorio, della musica più vicina a noi, che continua a farci problema, a interrogarci, a violare tutte le nostre sicurezze. Non sempre è necessario che la formazione segua una scansione così ordinata, ma è abbastanza ragionevole che si sviluppi seguendo una direzione che va da ciò cui siamo più abituati, per cui ci riesce più facile, naturale, istintivo, al meno noto, che ci risulta perciò difficile, problematico.

La difficoltà che gli allievi hanno con la musica contemporanea, non è la semplice difficoltà del Conservatorio a confrontarsi con linguaggi nuovi. È l’attrito che fanno questi stessi linguaggi rispetto alla percezione abituale delle cose, alle comuni visioni del mondo.

[De Salvo] Per lei che, oltre agli studi di conservatorio, ha una formazione universitaria umanistica, qual è il rapporto tra testo e note, poesia e musica. Gli studi universitari di filosofia hanno arricchito la sua formazione di musicista o sono stati una esperienza a sé, legata più a un contesto letterario piuttosto che musicale?

[Colazzo] Ho intrapreso gli studi di filosofia a prescindere dall’Università. Vi ero iscritto, ma le ragioni dei miei studi erano altrove, nel mio lavoro di compositore, appunto. E infatti hanno preso a ramificarsi, via via che procedevano, seguendo direzioni tutte personali. Ogni tanto davo un esame; alla fine mi sono laureato, ma è avvenuto come per inerzia, frutto di un lavoro che non era funzionale a questo scopo. Collaboravo con giornali e con riviste. È stato un periodo intenso; necessariamente in quel periodo ho un po’ rallentato la mia attività compositiva. Credo sia servito creare questa cesura. La musica è stata fecondata da tutto questo lavorìo che le si svolgeva attorno.

Non penso che la musica in sé sia come un qualcosa di isolato, di limitato, che abbisogni d’altro per rendersi più ricca, articolata, complessa. La musica è un mondo complesso di per sé. Ma avere studiato altro rispetto alla musica, per me, ha mosso le prospettive. C’è questo di positivo nell’aprire la musica, come ogni altro linguaggio, al confronto culturale: che significa osservarla in un contesto più vasto e da punti di vista diversi. Significa, in definitiva, rendere se stessi dinamici, fluidi, esercitare la sensibilità verso le situazioni aperte, mobili.

[De Salvo] Approfondendo quanto già da lei espresso in una precedente domanda, le chiedo: oggi, alla soglia del terzo millennio, esistono ancora regole formali per il compositore o tutto è lasciato alla libera creatività?

[Colazzo] La creatività non può darsi senza forma, senza regole. Ce lo insegnano i più grandi rivoluzionari, Schönberg, Stravinskij, e altri. Guardi, il discorso è lungo, ma anche un po’ ozioso. Prenda Schönberg, per fare un esempio. Non c’è artista, forse, più disposto, a livello di poetica, ad accettare l’idea della composizione quasi come dettato interiore, qualcosa che sgorga fuori per necessità interiore, d’istinto, potremmo dire. E nello stesso tempo Schönberg è uno spirito analitico. Che osserva minuziosamente, e indaga, e studia l’intera letteratura musicale. Che osserva minuziosamente se stesso quando compone. E che richiama l’attenzione, perciò, sulla necessità di articolare il proprio pensiero musicale, di esporlo in respiri formali, di distenderlo in progetti.

[Russo] Abbiamo parlato, sino ad ora, di vari aspetti musicali e culturali legati al mondo del compositore. Sarebbe interessante, adesso, parlare di ciò che il compositore produce, ossia delle opere. Nel 1984 lei termina gli studi e contemporaneamente inizia, diciamo, la sua libera attività di compositore. Lavori significativi del periodo sono D’intorno per flauto solo e Dune per quartetto di clarinetti. Vi si intravede quello che sarà uno degli elementi caratterizzanti di molte opere della produzione successiva: il lavoro su materiali musicali minimi. Ci può parlare di queste opere iniziali e di questa scelta compositiva?

[Colazzo] D’intorno è un pezzo cui sono molto legato, non solo perché è tra i primi pezzi che metto in catalogo, ma perché, secondo me, presenta alcuni caratteri che sono propri del mio stile. E li presenta da subito, in maniera molto coerente. C’è il lavoro su materiali minimi. Si tratta di materiali molto semplici, essenzialmente due idee: in entrambi i casi, poche note, in un rapporto intervallare molto chiaro, in una luce diatonica o quasi. Le figure vengono sottoposte a un lavorìo di elaborazione, per cui ritornano in varianti continue, in diverse permutazioni. Oggi curerei molto di più l’architettura generale. Nel pezzo, questa, è come determinata dal processo di trasformazione ed elaborazione dei materiali di base. È dopo che mi si è chiarito bene secondo quali modalità, tutte da tenere in equilibrio, si possa curare il rapporto tra i diversi stati elaborativi, quelli che riguardano la dimensione locale, per cui si cura anche il minimo rapporto, intermedia (percettivamente, forse, quella che organizza di più l’ascolto), e globale (le grandi architetture) di un pezzo. Tutti questi livelli contribuiscono al senso del pezzo, e ciascuno poggia sull’altro. Bisogna aver cura di tutti questi stadi. D’intorno, a ben vedere, lo fa. Non in un modo del tutto chiaro, ma il problema lo risolve; e senza chiedere soccorso a particolari forzature espressive, al gesto retorico, che, a volte, sa celare le crepe della forma. Di questo sono contento. È un pezzo molto originale. Un minimalismo in luce mediterranea.

[Russo] Alcune caratteristiche sopra esposte, come l’uso di pochi materiali sonori e la continua trasformazione della forma, si ritrovano in parte anche in Dune…

[Colazzo] Dune [per quattro clarinetti: clarinetto piccolo in MIb, due clarinetti in SIb, clarinetto basso in SIb; n.d.r.] è un pezzo basato su pochi elementi sonori, che hanno una molto organica evoluzione. Una prima parte è caratterizzata dalla presenza di elementi sonori puntuali, che vanno facendosi sempre più fitti, sinché il reticolo sonoro che va progressivamente formandosi si trasforma, con un effetto abbastanza sorprendente, in una fascia sonora morbida, raccolta in un registro astrattamente medio (vi si dirigono sia il clarinetto piccolo che il clarinetto basso, oltre che gli altri due clarinetti), e in un ambito sonoro molto ridotto. È una fascia sonora anche molto mobile all’interno, ma continua.

Narrativamente, dalla prima a questa parte, c’è il passaggio da elementi piuttosto sparsi ad elementi, invece, raccolti, fluidi, e come rivolti all’interno. Anche la seconda parte ha una sua evoluzione, nel segno, in questo caso, del ritorno verso i primi elementi. La fascia raccolta e omogenea viene come progressivamente forata da suoni di tutt’altro registro, e di diversa natura percettiva, appuntiti, questi, piccoli, raccolti in un loro guscio un po’ ruvido e scabro.

Un particolare del linguaggio di questo pezzo è l’emergere quasi — come dire — ‘eventuale’ di una figuralità riconoscibile: qualche accordo, qualche consonanza ci raggiungono, ma dati in una relazione non diretta, più che altro areale, quindi un po’ obliqua: nel loro decorso possono apparire vagamente casuali, anche se il loro arrivo muove da ragioni costruttive stringenti. Sono luoghi in cui il senso assiste come a un’increspatura: accenni di altre vie. Perciò parlo di qualcosa di ‘eventuale’. Sono ombre, reperti di figuralità che sfiorano inaspettatamente, secondo correnti un po’ misteriose, la nostra memoria: non vi si impongono, la solleticano.

È un pezzo positivo, che viene da me e va verso di me. Si ricollega perfettamente alla mia attuale produzione.

[De Salvo] Nel periodo successivo alla produzione delle opere di cui si è appena parlato, lei entra in una fase che lei stesso ha definito di “laboratorio”, ossia il confronto diretto con alcuni grandi autori classici, da Schubert a Debussy, da Beethoven a Ravel. Questo confronto musicale si concretizzerà con la creazione di una serie di composizioni, cito per tutte In camera oscura (per pianoforte ed ensemble), che meriterebbero un approfondimento.

[Colazzo] Qui bisogna riconoscere un’influenza da parte di Sciarrino, e tuttavia segnalerei anche alcuni punti di distinzione. Il suggerimento iniziale — magari non detto, ma dato nel nostro rapporto di allora — viene certo da Sciarrino, con il quale conducevo anche delle esercitazioni mirate proprio ad analizzare creativamente musiche del passato. Quale migliore analisi che un lavoro condotto all’interno delle opere a costruire possibili altre direzioni per esse, ma sempre coerenti con il linguaggio originario? Era un po’ questo il lavoro che conducevamo al livello di queste esercitazioni.

E poi c’era l’esempio di alcune sue opere, come Anamorfosi per pianoforte, che mette insieme due pezzi diversi, e li ricompone in uno, tentando di evitare qualsiasi senso della sutura, volendo ridonare l’impressione di una nuova unità. Compiere questo tipo di lavoro per durate lunghe, per grandi arcate formali, per pezzi di grandi dimensioni, impone una concentrazione sulla scrittura originale che non ha niente di ludico. C’è qualcosa che è come uno sprofondamento, un perdersi nei labirinti della scrittura.

All’interno della mia serie di opere si dà poi un’evoluzione, che ora le segnalo. Introduzione e variazioni (da F. Schubert) per flauto e pianoforte, si basa sull’osservazione di varie opere di Schubert: alcuni pezzi per pianoforte a quattro mani, e il famoso Introduzione e variazioni per flauto e pianoforte. Il pezzo per flauto dà come il decorso per la mia composizione. Gli altri pezzi, quelli per pianoforte a quattro mani, tutti accuratamente selezionati sulla base di alcune affinità figurali e motiviche, forniscono i materiali. Non è così semplice come lo descrivo. Si tratta di avere quest’impianto fondamentalmente, e poi di verificare via via come si sviluppi questo lavoro, che consiste nel riplasmare un linguaggio, quasi reimmergendosi nell’autore che si trascrive. Una reimmersione che non consiste nell’identificarsi per suggestione, ma nell’identificarsi per un lavoro di accanita ricostruzione di certe peculiarità di linguaggio e di tecnica, che vengono ritrovate per osservazione, comparazione, studio, lancio di ipotesi e verifica accurata di queste ipotesi. Un’alchimia tutta razionale, in cui però interviene l’intuito, a lanciare ponti, a individuare rapidamente possibili strade, e a provarle. Alla fine è riuscito un pezzo totalmente, integralmente alla Schubert, con materiali tutti schubertiani; non “alla maniera di”; proprio, invece, di Schubert. L’io di chi trascrive è completamente scomparso. È un materiale che parla per sé. Qualcosa, anche in questo caso, per questi risvolti, che mi riguarda da vicino. Non solo esercitazioni.

Un altro mio pezzo che muove da analogo modo di fare, e forse ancora più sorprendente, per come fiorisca – quasi come una produzione spontanea e naturale, quando invece è frutto di alchemica filologia, di un centellinare le possibilità, di un percolare il possibile attraverso il filtro, il setaccio delle scritture ‘originali’ — è Voiles englouties par Ondine (da Debussy) per pianoforte. Un pezzo del 1988. Qui lavoro sui Préludes di Debussy, in particolare su Voiles, su La cathédrale engloutie, e su Ondine. Anche questo pezzo è singolare, un rifacimento di Debussy, si potrebbe dire, per mano di Debussy. Anche le didascalie, tutte in francese, vengono da Debussy.

Nella sua domanda segnalava In camera oscura per pianoforte e ensemble. È un pezzo un po’ diverso. È una ‘fantasia’ sull’idea di “studio” per pianoforte. Lavoro sugli Studi di Debussy, sugli Studi di Bartók, e inoltre su alcuni concerti per pianoforte e orchestra, molto virtuosistici per il solista, di Beethoven, di Ravel, di Bartók. In un discorso più libero, riapplico alcune delle modalità compositive che ho indicato descrivendo i pezzi precedenti. Si viene così proiettati in un ambito di rivisitazione storica della categoria “studio”, e forse anche della categoria “virtuosismo pianistico”, il tutto mosso da una scommessa di virtuosismo compositivo. Si respira, tuttavia, qualcosa di inquietante. Il pezzo realizza innesti di un autore sull’altro, trapassi, scivolamenti di un’epoca nell’altra, commistioni, e rivela qualcosa di mostruoso: quasi la mano compositiva volesse provarsi dappertutto, senza limiti. È come un lavoro di ingegneria genetica. Proprio così. Ingegneria genetica applicata alla composizione.

Un altro pezzo del genere è Sequenza Capriccio per violino solo. L’ho scritto poco più che ventenne, e testimonia anch’esso questo modo del lavoro compositivo, per innesti sottili su scritture già prodotte. Nel caso il pezzo alchemicamente innesta Berio con Sciarrino. Successivamente la mia composizione, pur restando molto attenta agli aspetti formali, alla cura del dettaglio di costruzione, ha abbandonato quest’aspetto del gioco sottile con la scrittura già testimoniata. Ma ricordo con forte partecipazione quel periodo, che ha dato luogo, secondo me, a una costellazione di quattro-cinque lavori di qualità: espressione di rigore e virtuosismo compositivo, e anche deriva sperimentale; tuttavia leggeri: abbandonare tutto ciò che non serve, i mezzi e le tecniche agiti anche per empirica determinazione. Un muovere in molte direzioni: verticalmente verso il fondo e le linee di forza essenziali, verso l’alto e le visioni aeree; ma anche orizzontalmente, a sondare le contingenze, le occasioni che s’aprono e si offrono via via che si procede, un passo dietro l’altro.

[Russo] Fra gli anni 1989-1991 lei sospende momentaneamente di comporre. Riprenderà nel 1992 con l’opera Il est l’île, per orchestra, che verrà diretta a Lecce da Giampiero Taverna. Quegli anni di pausa sono dovuti a scelte precise, ad altri impegni musicali? Il est l’île, che è un lavoro sugli impasti orchestrali, sulle trasformazioni timbriche, sul continuo fluttuare timbrico, appartiene a quella che, forse, si può definire la sua più recente fase compositiva; ci può parlare di questo lavoro e di altre composizioni di quel periodo?

[Colazzo] Sì, in quegli anni che lei indica ho rallentato un po’ la mia attività compositiva. Mi sono dedicato ad altro, a studi musicologici e di filosofia, e poi ho avviato un’intensa attività pubblicistica, su giornali e riviste. È stato molto utile, non solo perché ho potuto incrementare l’impegno nei campi della filosofia e della letteratura, che ho sempre amato — anche dell’arte —, ma anche, e forse è qui l’effetto più importante — meno evidente, ma importante —, perché ha consentito che tutto il lavoro di ricerca sin lì condotto nel campo compositivo potesse sedimentare, passare al filtro del tempo. Questo setaccio, lasciato agire liberamente, senza impulsi particolari, a intraprendere una direzione piuttosto che un’altra, ad abbracciare una tendenza, a seguire un maestro o negarlo, e così via, alla fine pone in luce quello che ci riguarda più da vicino. È un ritrovarsi, che mette un po’ di ordine in se stessi. Fatto questo poi bisogna riprendere il viaggio, sperimentare, allargare il proprio ambito di esperienza. Io ho alcune idee su me stesso, sulla mia musica: qualcosa che mi descrive. Ma non penso ad un’identità conclusa. Si è sempre in viaggio, sono sempre in viaggio.

Il est l’île ricava il suo titolo da un verso di Edmond Jabès, poeta egiziano, ma di cultura ebraica e di lingua francese, che dice — tradotto: “Egli è l’isola”. In ciò affermando il carattere disperso, gettato di ogni individuo, navigante, alla deriva.

La musica di quel pezzo è fatta di oggetti sonori complessi, dove gli elementi si raccolgono in masse, fasce, le quali hanno come un volto enigmatico, mai fisse a se stesse, mutevoli nella loro vita timbrica interna, e inoltre, per lo più, di colore scuro. L’orchestra è molto grande, e molto particolareggiata. Ma non ci sono percussioni. Non so dire perché questa scelta, certo contribuisce a dare l’idea di un pezzo che si svolge come un’onda, senza colpi recisi, fratture, tagli, strappi.

Dopo questo pezzo ne sono venuti diversi altri, sempre per orchestra. È stato un periodo di intensa scrittura per orchestra. Ricordo alcuni titoli: Requiem per orchestra, anche questo eseguito dall’Orchestra Sinfonica di Lecce, che reca molti dei caratteri di Il est l’’île, ma è più breve, con un’orchestra più piccola. È dedicato al mio amico Antonio L. Verri, alla sua memoria. Requiem II, eseguito dall’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, è una riscrittura di quel pezzo. Poi c’è Pende il velo, il mobile (anche qui, nel titolo, il riferimento a un poeta ebreo, a Paul Celan — studiavo certi autori ebrei radicali: ero attratto dal loro radicalismo, dal loro accanito, ossessivo interrogare), che è stato eseguito dall’Orchestra Sinfonica di Sanremo. L’altro velo, eseguito dall’Orchestra di Lecce, L’ultimo velo per orchestra d’archi è stato eseguito dalla Haydn qualche anno fa. Si tratta, in genere, di pezzi che recano dei caratteri simili, e costituiscono come un arcipelago che ha disegnato, definito la mia scrittura orchestrale.

È una scrittura fatta soprattutto di eventi complessi, dove l’orchestra respira come un organismo vivente. In genere non c’è nulla di brutale. È come un unico grande respiro. Scrivere per orchestra mi piace molto. Sento la materia sonora tra le mani. Quando scrivo per orchestra ho la sensazione quasi tattile della materia sonora.

[De Salvo] Lei ha citato l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento. La collaborazione con esecutori trentini e con la città di Trento è proseguita anche negli anni successivi. Il coro Castelbarco di Avio, diretto da Luigi Azzolini, ha inciso su CD Amara è la morte, per coro misto a cappella, del 1996. Sempre nel capoluogo trentino, al Teatro Sperimentale (1997), è avvenuta la prima esecuzione di Sotto i colpi del sole di ferro, per mezzosoprano, baritono e percussioni. In questo caso gli interpreti non erano trentini, venivano da vari parti d’Italia: le voci di Susan Long Solustri e del bravissimo Roberto Abbondanza (questi interprete anche, qualche anno dopo, di un’altra sua opera, Il latifondo magico, ad “Europa Festival”), due percussionisti lucani. Ma alla produzione avevano partecipato alcuni enti trentini. L’anno seguente diversi interpreti locali hanno eseguito a Trento il Secondo Quartetto, per archi. E poi negli anni si è semmai incrementato il rapporto con interpreti locali. Comunque la domanda può essere innanzitutto d’ordine generale: che tipo di rapporto si crea fra il compositore di un’opera e l’esecutore? Che margine di interpretazione lei concede agli interpreti delle sue opere? Partecipa sempre alle prove? Poi, per entrare nel particolare della situazione culturale e musicale in Trentino, se può darci una sua osservazione sul mondo musicale di questo territorio.

[Colazzo] Aggiungerei, a quelle da lei citate, le recenti (1999 e 2000) esecuzioni di L’attesa per tre voci recitanti, clarinetto violino e violoncello, su testi miei da Simone Weil. Alcuni miei interventi come pianista, in cui ho eseguito mie opere, in contesti molto interessanti, come alla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea. E anche altre situazioni. A Trento c’è un buon livello generale, tra gli esecutori, con alcune individualità di sicuro spicco. Come altrove, probabilmente. Resta ovunque, penso, difficile, il rapporto tra esecutori e compositori. Non sempre gli interpreti sono disposti a mettersi in gioco, rispetto a partiture nuove, che magari sperimentano atteggiamenti esecutivi nuovi. La mia musica, specie le opere più recenti, non spingono le possibilità esecutive all’estremo, tuttavia hanno a che fare con un nuovo modo di suonare insieme, in cui conta molto l’ascolto reciproco, il ben soppesare le dinamiche, il far respirare la musica, il trovarla in momenti di scarto, di intervallo. Essendo fatta di eventi molto sottili, di una forma mobile, tendenzialmente aperta, si gioca tutta nell’equilibrio, nel creare un ambiente e tenerlo in un equilibrio dinamico; non nell’addensamento, non nell’imporsi alla percezione, ma nel chiamare la percezione e l’ascolto a partecipare.

Fra compositore ed esecutore c’è spesso un rapporto difficile, come un diaframma preventivo, che si crea a difesa delle rispettive prerogative. Se la relazione procede positivamente questo diaframma cede il passo alla comunicazione. Non sempre questo succede, ma a volte sì. Io concedo margini all’interpretazione, nel senso che non mi presento alle prove o quando vengo richiesto di ascoltare come procede lo studio di un mio pezzo, con una serie di idee da imporre. Tento di essere sgombro da qualsiasi idea preventiva. Tento di ascoltare la mia musica come qualcosa di nuovo, di altro. Naturalmente l’operazione di pulizia da qualsiasi mia idea precedente sul pezzo non è del tutto possibile, anche se in parte accade: stare in rilassamento e in abbandono. È anche una specie di finzione, tuttavia molto utile, perché ha un suo effetto pratico. Tra quel centro di pensiero che non può essere abraso e il punto di vista discosto, periferico, divergente che ho voluto assumere si crea una corrente che sa provocare qualcosa, forse nuove idee, e soprattutto apre a comunicare. Crea un ponte, attraverso cui ci si parla. Si mettono a fuoco idee. Penso sia utile sia per il compositore che per l’interprete.

Comunque quello del rapporto tra compositore e interprete è un capitolo difficile; spesso a soffrirne è il compositore. A volte le esecuzioni di musica contemporanea vengono vissute come un dovere, qualcosa da fare, ma da sbrigare rapidamente, con il minor danno possibile, in termini di tempo e di guadagno economico.

[Russo] Ci ha detto di qualche suo lavoro che può essere fatto rientrare nell’ambito del genere del teatro musicale. Quale il rapporto con la parola e con l’idea della realizzazione teatrale, del movimento, della scena?

[Colazzo] Ciò che sinora ho tentato fortemente di evitare, quando scrivo basandomi su un testo o pensando in riferimento a un allestimento per il teatro o per la danza, è un rapporto tutto versato in direzione della retorica evidente, immediata. Anche in questi casi esiste una tensione musicale unitaria, un arco di svolgimento che potrebbe riguardare la musica anche autonomamente. Teatro, parola, gesto partecipano con la musica di un’intenzione di respiro che li coinvolge tutti verso archi compiuti e verso archi comuni. È come disegnare un ambiente complessivo che sappia contenere le diversità, gli scarti, persino gli improvvisi colpi di scena. Un comporre il diverso e il vario dentro una curvatura tendenzialmente unitaria. Cerco sempre questa liricità dentro il dramma, questo senso dell’azione che non vige in se stessa, che non è ragione ultima, anch’essa occasione, apertura, strumento per una dimensione ulteriore. Il centro, in questi casi, è qualcosa di non propriamente stabile, stato emotivo, baluginare di un senso, e non trama di racconto.

Per questo, in Sotto i colpi del sole di ferro, sia nella versione per voci narranti e percussioni che in quella per mezzosoprano baritono e percussioni, il testo (a cura di mio fratello, Salvatore) è montaggio e deriva di una polifonia di racconti; tutti nell’onda del tema della transe, della coscienza alterata, della coscienza-macchia, della coscienza-rumore e della dispersione. Nessuna direzione univoca nelle trame, ma irradiazioni di senso, a consuonare con una musica che si lascia fortemente provare dal tema del linguaggio alterato, della dispersione del segno, del rumore, dell’approdo assente, del movimento aperto, della deriva. È una mappatura eventuale del tema della transe, nella musica e nel testo, ottenuta per derive, accostamenti, improvvise sensibilizzazioni, coaguli inattesi del racconto.

In Il latifondo magico, per soprano, baritono, una voce recitante e quattro percussionisti, il tema è improntato al comico, per un testo di Vito Riviello che ama molto il senso della parola materiale, del gioco linguistico. Ha il suo centro nel tema della concreta, materiale sopraffazione del potere (incarnato dal personaggio del Barone, e da quello del Segretario, che in qualche modo lo “certifica”). Toccando a volte i toni del comico e del farsesco, evita di cadere nell’ambito della denuncia ostentata e retorica. E a ciò contribuisce anche l’ambientazione temporale, che è incerta, sospesa, inviata in un passato lontano, di difficile ricostruzione, e perciò favolistica. Il canto realizza, per quanto riguarda il personaggio del Barone, un declamato molto secco, ripetitivo, ossessivo, che si lega a un testo che ricorre al gioco di parole (spesso scoperto, come di filastrocca); in alcuni momenti è quasi parente del “canto” incalzante, ritmato, parlante del rap. L’altro personaggio, la vittima (la Scimunita), dotato di maggiore ambiguità, femminile, definisce un canto sinuoso, flessibile; da un avvio angosciato, dove persiste ancora, in qualche modo, il senso della ribellione e la capacità dell’ironia, si esaspera in una dimensione sempre più chiusa e sospesa, quasi incantata e stupefatta: una progressiva evaporazione del sé procede verso il suono inarticolato, ripetuto e lasciato risuonare. Un sussulto di dignità romperà questo stato, con la finale, perentoria domanda di riconoscimento per sé e per la propria discendenza. Il Segretario, per quanto maggiormente funzionale alla figura del Barone, costituisce, dal punto di vista musicale, con la sua recitazione ritmata, che tuttavia assume alcuni caratteri delle “mosse” del personaggio femminile, e con questi soprattutto interloquisce, un luogo di mediazione tra le due voci cantanti. Nel culmine, quasi-finale, di un terzetto, le tre voci si riuniscono, in un dialogo sempre più serrato e spesso sovrapposto. La parte strumentale appare dotata di una forte carica ritmica, con il suo articolare complesse e continue poliritmie. Non manca, in una parte centrale, uno svuotamento di questa componente, con il parallelo emergere di una partitura fatta di elementi sospesi, risonanti, vaganti.

E poi direi di L’attesa, melologo per voci recitanti, violino, clarinetto e violoncello, su testi miei da Simone Weil. Un lavoro cui tengo molto, intenso, preso nel senso della figura della Weil, con le sue introflessioni estreme, il suo evitare ogni senso di compiutezza, il suo stare nella precarietà, sentire la fede come dolcezza e tormento estremi. Il pezzo non evita il brusco attrito delle dissonanze che sfregano, premono. Tenta espressioni morbide, ma mai rassicuranti, sempre percorse come da un costante senso di alterità, e precarie, mai pienamente definite, come leggermente scomposte, forate, bucate. Un’architettura, anche in questo caso, nonostate la lunghezza del pezzo, che travalica l’ora, unica, assolutamente unitaria, necessaria. Qualcosa di circolare; un labirinto infinito, chiuso e senza misura, e perciò aperto, come senza inizio e senza fine.

[Russo] Ci sono anche alcuni lavori di musica da camera, nel catalogo di quegli anni, per ensemble: Il mondo all’aperto, per soprano e cinque esecutori, Zamilampis per un ensemble composito, con pianoforti percussioni e arpe…

[Colazzo] Zamilampis è un pezzo per un organico assolutamente poco pratico se si pensi alle possibilità di esecuzione, essendo per due pianoforti, due arpe, celesta e quattro percussionisti. Trovai la proposta molto intrigante, quando mi si chiese di scrivere per quest’organico, in vista di una realizzazione in concerto da parte del Tammittam ensemble. Tutto il pezzo respira intorno ad un centro fatto di poche note, con poche variazioni di registro; mentre, dal punto di vista della grande forma, definisce una serie di vicende prospettiche, dove vale il senso dell’allontanamento, della fuga; sino ad un finale di svuotamento e silenzio. Il contrappunto delle varie stratificazioni ritmiche mira a promuovere la compenetrazione degli oggetti: vorrebbe trovare, produrre il senso di una corrente sonora metamorfica; fatta di materiali lievi, comunqe: la sfida del “quasi nulla”, da cui possa sorgere qualcosa di originale, il senso di un suono aurorale, misterioso.

[Russo] C’è poi, dal ‘97, la produzione di un ciclo di pezzi per pianoforte. In tutto dovrebbe aver scritto, da allora ad oggi, cinque pezzi, alcuni anche molto lunghi. Circa un pezzo l’anno. Potrebbero riguardare un programma intero di concerto. Come mai questa scelta di concentrarsi sulla scrittura per pianoforte? Non dico che abbia trascurato altri organici, comunque è un fatto che ogni anno abbia visto nascere un nuovo pezzo per pianoforte, in una staffetta che segna un percorso lungo, e forse non ancora concluso. Come si definisce questo percorso di approfondimento della scrittura in rapporto al pianoforte?

[Colazzo] Non so se corrisponda a una sensazione diffusa tra i compositori che vengono anche da una formazione strumentale, e potrebbero essere, quindi, anche interpreti di uno strumento, ma per me è stata abbastanza presente una sensazione, non so dire se di imbarazzo o di maggiore tensione, a scrivere per pianoforte. Mi sono chiesto da cosa sia derivata questa modalità del rapporto, e perché lo scrivere per pianoforte costituisse come un problema a parte. Ma è stato così, se per lungo tempo non ho scritto per pianoforte e ho preferito scrivere per altri strumenti, in genere per grandi gruppi strumentali, spesso per orchestra. Questo derivava certo dalla strada che andava prendendo la mia scrittura, che ha sempre amato visioni aeree, e lavorare su composti sonori, dove le vite particolari contribuiscono a definire il globale, le sue trasformazioni, le sue sfumature, i respiri, trafitture, sgonfiamenti, rigurgiti, bolle, nodi e così via. Lavorare ‘polifonico’ a costruire tessiture e stoffe come un po’ slabbrate, scorrimenti vari, e una temporalità anche eventuale: una visione aerea, ma nello stesso tempo traversa. Il suono che rivendica se stesso, la sua autonomia, la sua capacità di creare un valore aggiunto rispetto alle nostre costruzioni, sentieri personali, e di sorprenderci quindi.

Ho scritto per lunghi anni molto per orchestra, concedendomi parentesi in cui mi sono dedicato magari a piccoli gruppi. In una fase ho lavorato molto per le percussioni. Ma il pianoforte tardava a farsi presente.

La sorpresa del suono e il nostro aprirci ad essa. Questa la poetica. Ma come tradurla in rapporto ad uno strumento solista? senza abbandonare quel modo di lavorare, ‘aereo’ e ‘polifonico’ (ma non ‘scultoreo’, come se si avesse a che fare, invece, con sculture fluide: essere mobili, duttili, con il suono). Si tratta di tradurre la polifonia in dimensione orizzontale, farla rivivere in un gioco illusorio di ombre e luci. Qui una difficoltà, perché bisogna riconvertire il proprio lavoro, metaforizzare quanto sinora affidato a individualità distinte, facendolo agire in altre dimensioni, in particolari d’armonia, di registro, di approccio al suono. Quella vita che prima si dava tutta in esterni ora deve realizzarsi in interni, e quindi affidarsi a costruzioni più sottili, a una maggiore sensibilità del compositore. Questa una prima difficoltà. L’altra è nella particolare condizione in cui si trova il compositore-pianista, che conosce il suo strumento e il repertorio, ed è insieme se stesso e la tradizione dello strumento. La particolare prospettiva che deriva da questo stato è molto condizionante. Comunque sia, in pochi mesi, tra 1997 e 1998, ho prodotto un trittico di pezzi per pianoforte (Stanze; Disteso a Oriente; Formes). Poi una sosta. Quindi due nuovi pezzi, Clos, nel 2002, e Visioni di un oggetto nel 2003. Il pianoforte è diventato, effettivamente, una grande tentazione.

A volte eseguo personalmente i miei pezzi in concerto. Quando posso farli insieme, in gruppo, — l’ideale sarebbe tutti, l’uno di seguito all’altro, magari nell’ordine di come sono venuti alla luce —, mi pare che disegnino un’esperienza, l’arco di una ricerca. Per me è infine positivo e arricchente osservare il mio lavoro di compositore con gli occhi del pianista. Conoscere il retroterra che agisce nel pezzo, come forza di costruzione, come volontà e desiderio, e intervenire a dare senso come interprete, a far significare tutto questo, e insieme provare altro, assecondare, soprattutto, quanto emerge oltre le strutture: un che di aggiunto, di oltre, che il suono libera.

[Russo] Più recentemente è tornato a lavorare per piccoli gruppi: noto nella produzione 2004 un pezzo per clarinetto e pianoforte, L’aperto azzurro, e poi lavori per ensemble, come Le migrazioni lente, l’oltrepasso per violino, clarinetto, violoncello e pianoforte, I ritorni, l’incavo per ensemble di ottoni. È come un riannodere le fila, fare sintesi, versare forse l’esperienza del ciclo di composizioni per pianoforte, in quest’altra direzione?

[Colazzo] È esattamente così. Penso di stare offrendo ad altri ambiti il senso di quest’esperienza. E penso che tutto si dia in termini di un approccio nuovo. Il senso è di qualcosa di nuovo, che è intanto maturato. Lavoro intensamente, e penso di essere in un periodo fertile, da questo punto di vista. Non è modificato il senso poetico, di una musica mobile, duttile, aperta, che chiama l’ascolto non alla distanza, ma a farsi dentro, a essere partecipe dell’evento, l’orecchio a muovere, piuttosto che ad essere centro di misura. Forse la tecnica, con l’esperienza, si affina, si rende più capace ed elastica.

[Russo] Per concludere quest’incontro, se la sentirebbe di entrare più da vicino nel laboratorio delle tecniche, di dirci qualcosa a riguardo dei suoi modi di lavoro compositivo.

[Colazzo] Direi, innanzitutto, della posizione poetica, che è nell’idea di un suono non completamente definito, in qualche modo soggetto di scoperta, aperto agli eventi: mobile, ma non vergine, pregno di storia, come già fecondato. Porta con sé sensualità, sapori e morbidezze, evocazioni. E tuttavia viaggia, si pone in una deriva ascoltante, aperta, vigile come quando si è in una veglia inondata di immagini, ragionante senza sosta, per catene ininterrotte, successioni di successioni, Qualcosa di sospeso e aereo, anche, di trasceso, per quanto a volte sbavi in rumore sporco. Ma anche questo è qualcosa di non pienamente controllato, un debordare, uno spalmarsi intorno, mentre, stupefatti, nulla si può, se non osservare e farsi attraversare, come sempre, dagli eventi.

[Russo] E per le prassi compositive?

[Colazzo] In genere il compositore è restìo a parlare di questo, come se vi sia il rischio di dissipare un patrimonio di scoperte raccolte con fatica. O forse perché portando luce su questi luoghi, magari li scopre, parlandone, poco attraenti, non poi così ben presentabili. Voglio correre il rischio. E dirò delle prime mosse. In genere dispongo, dapprima, un piano che riguarda la presenza degli eventi. Un piano molto sommario di presenze e vuoti, disposti sulla carta per semplicissime regole di alternanza. Riguarda sempre un complesso di linee, di strati di eventi. Riempiono lo spazio, seguendo criteri molto semplici per delimitarsi e definirsi. C’è quindi, all’inizio, l’idea come di una visione aerea, dove l’intero pezzo si mostra in una sua unità ancora molto virtuale.

I segmenti di presenza e di silenzio così definiti vengono sottoposti a un trattamento per cui si realizzano in profili molto generali di luoghi di evento musicale e luoghi di silenzio. La costruzione prevede che il tutto si definisca come un intreccio di linearità, ma queste linearità sono ancora in forma molto astratta. Sono articolazioni di presenze e di silenzi. Nulla è detto delle articolazioni interne, dei registri di altezza, delle configurazioni timbriche. Sono curvature di presenza, incavi di possibile presenza dentro il generale silenzio originario, nel vuoto di partenza, affondi nel bianco della pagina.

In questo stato posso già definire un respiro della forma in sezioni, in stanze, oppure tenere il tutto in uno stato di tendenziale, progressiva fluidità, per cui anse e respiri si creino piuttosto contingentemente.

Ho provato entrambe le soluzioni. In genere tendo a offrire già nello stadio della progettazione alcune occasioni – nulla di molto reciso – per il respiro della forma. (In questo caso altri parametri tenderanno a scavalcare questa prima segmentazione, in qualche modo a ignorarla, a trovare altri respiri per sé. Questo induce condizioni di transito mai reciso, abbastanza ammorbidito, dal fatto che mai avviene tutto insieme per tutti gli aspetti).

Dopo aver definito il primissimo piano della presenza, come un’esigenza di presenza, ma nulla ancora di precisato dal punto di vista musicale, passo a definire un piano delle figuratività, che cominceranno a declinare quel primissimo progetto articolatorio.

Si tratta di trovare le articolazioni figurali interne di quei primi segmenti trovati. Il tutto è ancora definito in linee molto astratte. Ma le figure incominciano a dettagliarsi. Il piano di queste articolazioni interne potrà essere orientato – secondo una prospettiva, dico soltanto per esempio, da figure larghe e poco serrate a figure tendenzialmente molto serrate e rapide – oppure tutto potrà essere in campo da subito, come possibilità data, e allora la complessità si darà come non fortemente orientata, mobile in molte direzioni. Ho scritto pezzi secondo entrambe le modalità, ma in genere posso dire di preferire la seconda soluzione, dove gli orientamenti e le finalità sono eventuali, in qualche modo aperte, soggette a intrusioni casuali.

Passi importanti sono le definizioni figurali in relazione alle direzioni e alle articolazioni intervallari. Anche questo risponde a pianificazioni preliminari, non deriva, in linea di principio, da scelte momentanee. Certo, le scelte non sono separate da ciò che si ritiene di ottenere come effetto; e se gli effetti non convincono, si ritorna al piano preparatorio, per trovare soluzioni di organizzazione che mirino bene a ottenere ciò che si vorrebbe.

Ma questo, l’effetto voluto, non è un ente precisamente individuato: sono stati, desideri, immagini, memorie, qualcosa che si preciserà proprio con l’aiuto del pezzo che va definendosi. Il pezzo è qualcosa rispetto a cui ci si pone in ascolto, in un ascolto apprendente, perché sempre poco si sa rispetto al possibile, all’aperto. Noi siamo una curvatura nel possibile, ma non una chiusura del possibile. Una leggera pronuncia nel mondo, qualcosa che momentaneamente segna il mondo, polarizzazioni incerte, puramente locali, nella marea del mondo.

Ritornando al piano delle tecniche. Una pianificazione potrà riguardare i registri e i luoghi di avvio della macchina figurale. Il tutto trova un riferimento importante nella definizione dei campi sonori o di scale. Le quali sono costruzioni mai precostituite, qualcosa, invece, che trovo nel corso della definizione dei vari parametri che occorreranno alla precisazione progressiva del pezzo. A volte si tratta di campi che coprono un pezzo dall’inizio alla fine. A volte, invece, sono estremamente mobili e cangianti. In questi casi tendo a gestire attentamente i transiti. Anzi, la gestione dei transiti diventa occasione espressiva notevole, in quanto, per favorire il transito tutto tende a rendersi maggiormente neutro, come disposto alla relazione a sinistra e a destra, indietro e avanti. Ma in questo ridursi del carico identitario, il momento acquista un’altra identità, fatta di poco, molto ridotta. La sorpresa ch’ebbi quando questi luoghi di vita ridotta, in un pezzo come Visioni di un oggetto per pianoforte, si rivelò poter essere un do sfacciatamente presente, fu notevole e mi pose non pochi problemi rispetto alla scelta, se tenere questa possibilità emersa o mutarla, modificarla. Infine la tenni. Quel pezzo sorprende perché è un pezzo molto lungo, circa 17 minuti, e nello stesso tempo è invaso da questa presenza insistente del do, come una tonica che non vuole essere distratta dal suo ruolo. Insieme con altri materiali, quell’aspetto tende a rendere il pezzo quasi provocatorio, perché sembra non avere timore di usare materiali quasi-storici. E tuttavia il tutto è concepito nella maniera di molti altri pezzi, strutture mobili e fluide, macchine formali in qualche modo aperte, pur essendo molto organizzate — ma proprio per determinare quest’idea di un qualcosa di aperto, di esplosivo verso l’esterno: macchine di disordinamento controllato, macchine vitali.

Altro aspetto da riguardare attentamente è quello delle densità.

Per tornare a considerazioni più generali, rispetto ai parametri: direi che essi trovano, nell’intreccio che si danno, delle regole di convergenze, affinché non si tratti di una somma di organizzazione di aspetti del pezzo, tenute in un rapporto di indifferenza reciproca, che poi può rapidamente trasformarsi in ostruzione, ma di aspetti del pezzo che sanno in qualche modo delle esigenze reciproche. Sono piccole regole che tendono a trattamenti convergenti, come se in questa comunità di parametri si considerasse anche l’altro, certe sue esigenze minime, che non vanno oppresse.

Altre organizzazioni riguarderanno i timbri, o le famiglie timbriche, magari costituite secondo rapporti diversi da quelli tradizionali, oppure anche in conformazione tradizionale. Dipende dai pezzi. Le costruzioni, a volte, possono essere così complesse, in un pezzo per orchestra, ad esempio, per cui anche un’organizzazione che poggi su distinzioni tradizionali in famiglie, riesce sottoposta a innesti, subentri, invasioni, transiti di flussi, che sciolgono, in effetti, l’ordine abituale percettivo. Certo tendo a valutare il gradiente di intervento sulle strutture tradizionali. Tendo in qualche modo a scioglierle, a liberarle, ad aprirle a organizzazioni altre, a esperienze nuove. Mi piace, come ho già detto, l’idea di un suono curvato al possibile, all’altro, mobile, disposto a trasformarsi e cambiare. I pezzi come derive del suono, viaggi – non eroici – ma ascoltanti il possibile. In questo senso le vecchie conformazioni vanno forzate a uscire dal loro guscio, a prestarsi reciprocamente, a darsi all’altro, senza reclamare troppo, sul proprio apparato di regole di buon comportamento.

[Russo] A questo punto siamo ancora nell’ordine del progetto, dello schema, dell’abbozzo, o ha già iniziato a stendere il tutto in partitura?

[Colazzo] Siamo ancora, in qualche modo, nell’ordine della linearità astratta e dell’abbozzo, della messa in prova degli schemi e degli appunti. Sono stati organizzati in forme via via più precise strati astratti di eventi. Si tratta ora di tradurli in forme concrete musicali. E qui s’avviano le prove su pentagramma, in modo che il tutto risulti sciolto, adeguatamente articolato e variato, secondo esigenze musicali. Gli strati in concezione astratta non sono parti musicali. Vanno attraversati, ricomposti in linee musicali. Gli strati, spesso, vengono riletti nella forma di prime basi di polifonie virtuali. Questo permette alle concrete linee musicali di darsi come composite, variate, organismi complessi, a più dimensioni.

La virtualità polifonica sarà molto presente in pezzi per solista o per piccolo ensemble, tendenzialmente sempre meno presente via via che il tessuto delle presenze sonore si fa sempre più complesso. Questo perché è utile, percettivamente, che, rendendosi ampie le dimensioni del tessuto, ed essendo, quindi, mutate le condizioni del contesto percettivo, si riduca ogni aspra complessità della singola presenza, la quale potrà darsi in uno stato di maggiore linearità.

Non è automatico tutto questo, e in qualche caso le mie composizioni per orchestra si fanno fitte di particolari. Questo perché so quanto possa essere utile il portato di una via opposta, del dettaglio esasperato del particolare, tenuto sempre molto mobile, in una struttura sonora molto vasta e articolata. Questo può essere utile dal punto di vista espressivo, soprattutto, in quanto induce verso uno stato inatteso, di massima variabilità del dettaglio, di centrifuga generale degli eventi, di prezioso brillìo del possibile. Ma non lo darei come tecnica generale: può essere uno sbaraglio delle aspettative, un improvviso, una parentesi, un prestarsi alla sensazione estrema, alla percezione provocata, al colore massimamente variato.

Ma sostanzialmente, il mio atteggiamento, è di articolare molto in contesti fatti di poche presenze date, e di diminuire le polifonie virtuali, di articolare di meno, laddove la polifonia è concretamente data in numeri considerevoli.

Dirò infine del discorso delle dinamiche e dell’agogica. Lascio questo parametri più liberi di altri, mirando a raccogliere il senso che promana dal pezzo, in qualche modo di esaltarlo. Li ho presenti via via che stendo il pezzo, ma volutamente li lascio in uno stadio soprattutto orale, memoria e ricordo di soluzioni possibili. Mi pongo in ascolto del pezzo, quando questo è in uno stato abbastanza stabile di abbozzo. Ed è difficile trovare la soluzione ideale. Provare e riprovare, entrare nel senso del pezzo, in qualche modo farsi circondare dal pezzo, e quindi offrirgli una via di definitiva presentazione. Non è semplice. Io voglio ridurre il senso del gesto retorico. Tuttavia lavorare a questo livello sulle dinamiche significa in qualche modo muoversi sul piano della retorica. Qui entra la sensibilità dell’interprete. Divento, diciamo così, “interprete” dei miei pezzi. Questi mi parlano, suggeriscono, trovo soluzioni. Non sono definitive, potrebbero essere altre. Ma lì è anche l’impronta mia, di soggetto primo di interpretazione. È un lavoro che lascio sedimentare a lungo, molto riflessivo, con soste e allontanamenti, perché voglio che il pezzo si faccia veramente mio, e diventi, quindi, nelle scelte che compierò, la mia parola. Lo è anche nelle fasi precedenti, qui c’è qualcosa di più oscuro e interrogativo, forse; in questa frattura del progetto altrimenti molto compatto, c’è una contraddizione; che non mi fa specie, tuttavia, a suo modo creativa, libertaria: un’ulteriore apertura, in una progettualità che è accanita nello scardinarsi, nel trarsi fuori dalla mitologia del massimo razionalismo, messa in atto con l’obiettivo di aprire e disordinare. Un progetto di apertura non individuale, in qualche modo strutturale, e per questo molto mediato, che deve darsi sul piano dell’organizzazione, su un piano, anche, di ricorrenze, di relazioni, per quanto alleggerite, sospese, aperte.

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Note biografiche

Nato a Melpignano, in provincia di Lecce, nel 1964, Cosimo Colazzo ha iniziato giovanissimo lo studio della musica, dapprima sotto la guida del padre, quindi al Conservatorio di Lecce, dove si è diplomato in Pianoforte, nel 1983. Successivamente si è diplomato in Composizione, nel 1984, al Conservatorio di Roma e in Direzione d’orchestra, nel 1985, al Conservatorio di Milano. Inoltre, si è laureato in Filosofia, nel 1995, all’Università degli studi di Lecce. Dopo il diploma di composizione ha intrapreso il perfezionamento con Salvatore Sciarrino, all’Accademia di Città di Castello, dove ha studiato nel periodo 1985-88. Ha frequentato i Ferienkurse di Darmstadt nel 1988, e ha seguito corsi e seminari con vari docenti: di direzione d’orchestra con Pierre Boulez (Avignone, 1988), e con Peter Eötvöss (Szombathely, 1988); di composizione con Luigi Nono (Avignone, 1989). E’ autore di una vasta produzione, che spazia da opere teatrali a composizioni per orchestra e per gruppi da camera, a musiche corali e lavori pianistici. E’ stato premiato, per sue composizioni, in concorsi nazionali e internazionali. Ha partecipato con le sue composizioni a vari Festival, e sue musiche sono state eseguite in Italia e all’estero, trasmesse per radio e per televisione. Ha svolto attività in qualità di direttore d’orchestra; e attività musicologica, collaboratore di varie riviste, musicologiche e di filosofia, autore di volumi e saggi, dedicati soprattutto ad intrecci tematici tra musica e filosofia e all’analisi dei rapporti tra musica e cinema. Dal 1999 insegna Composizione al Conservatorio di Trento. Fondatore e coordinatore del festival “Mondi Sonori”, sulla musica del ‘900 e contemporanea, ha promosso e coordina diverse iniziative sperimentali nel campo della didattica della composizione. E’, inoltre, docente a contratto di Grammatica e Morfologia della Musica all’Università di Palermo, corso di laurea in Discipline della musica.

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Contemporary Music di Luca Ribustini. Uno spazio dedicato alla musica d’oggi. In questo numero:

COSIMO COLAZZO

compositore

Noi siamo una curvature nel possibile, non una chiusura del possibile: una leggera pronuncia nel mondo. [C. Colazzo]

D – La complessità e l’eterogeneità dei linguaggi della musica e dell’arte in genere, raccontano il nostro tempo. Vi è tuttavia una tendenza inarrestabile alla semplificazione ottusa delle sintassi e delle espressioni artistiche. Tempo pieno di paradossi il nostro ma, in tal senso, le sublimi manifestazioni del pensiero corrono il rischio di essere sempre più “out”. Che sta succedendo secondo lei?

R – Il nostro tempo è tempo delle prospettive disperse, dell’apertura orizzontale degli eventi. Tutto accade come intorno a noi, trascorre di fronte a noi. Noi stessi siamo immersi dentro questo stato, di una corrente incontrollata delle cose; continuamente interconnessi a tutto, ma senza un progetto di intervento nel mondo. Si trascorre, di collegamento in collegamento, in una deriva continua, rivelativa di nulla, se non di questi rimbalzi incontrollati, da un ambito all’altro.

L’arte. Come si atteggia in questo contesto? In posizioni molto varie, diverse. Sembra rilevante il senso del gesto che provoca la forma, per risolversi in questo di-fuori, che è innanzitutto polimorfo, strano, contraddittorio. Da qui gli atteggiamenti che non fanno molto filtro ai mescolamenti, agli innesti intertestuali, al riuso dei più vari materiali, montati, mixati, stratificati. Come anche le ricerche che sperimentano i più vari rapporti, tra visuale, sonoro, verbale, e così via. Un’accanita ricerca di provocare i limiti delle cose. Di rendere tutto presente, contemporaneamente presente. C’è il rischio di una saturazione: troppa presenza, troppo materiale, troppa informazione, troppa energia. Poca o nessuna forma.

La forma è filtro, sottrazione: non tutto in primo piano. Una prospettiva. E se non una prospettiva, una piccola curvatura dello spazio. Questo gesto, dell’incurvare lo spazio, dell’incurvare il tempo, è il gesto della forma. Questa leggera pronuncia, che preme qualcosa e lo sospinge a una qualche figura.

Forse quest’atteggiamento è oggi meno diffuso, minoritario.

Comunque la condizione è molto complessa. C’è spazio per molto di diverso, contraddittorio; il prodursi di una condizione multicentrica, e l’aprirsi orizzontale delle esperienze, a transiti e derive, stati più confusi, mescolati, in tutte le cose.

Le nuove tecnologie aprono prospettive inattese. Quanti poco alfabetizzati musicisti manovrano macchine ormai alla portata di tutti, e montano, mescolano, modificano, innestano materiali musicali! Raramente qualcosa di veramente interessante. Tuttavia una volontà di esserci, provare, dire, realizzare qualcosa.

Nell’ambito della musica di ricerca, sperimentale, nel nostro ambito della musica contemporanea, c’è forse aria di crisi. Mentre ci si combatteva tra vecchie generazioni, utopiche-rivoluzionarie, e nuove generazioni, tese a ritrovare il filo della comunicazione con il pubblico, recuperando linguaggi abbastanza tradizionali, tutt’intorno il mondo cambiava. Già vecchio il monito, di ritrovare-incrociare il gusto del pubblico. Ci si riteneva al centro del mondo. Ci si scopre su un’isola lontana, poco nota a qualsiasi rotta.

Indubbiamente si rileva una tendenza, nel nostro ambito, alla semplificazione dei linguaggi, a renderli fruibili, e inoltre praticabili dagli esecutori. Oppure, entrano in campo le vie brevi dell’evento che colpisce per sé stesso, per la trovata che si presta bene ad essere promossa, pubblicizzata. Un tentativo di esserci? La necessità di un terreno minimo saldo, di lavoro per sé, di confronto con gli altri…

Questo stato paradossale, di un fare che non ha più il senso della prospettiva, che è fare per se stesso, per provarsi di esserci, e come attonito, dal respiro breve, mentre ha quasi perso il senso dell’obiettivo e di una prospettiva possibile, è anche il nostro mondo, il nostro ambiente.

Qui, in questo spazio stretto, pressati da molti lati, la terra continuamente erosa, c’è ancora – io dico – lo spazio di una voce, di un senso sottile. Spero o forse mi illudo. Io penso di praticare questa via. Se ci si sottrae, ma solo di un passo al mondo, a guardarlo come da un lato, di traverso o obliquo, c’è spazio per un discorso, e soprattutto per muovere al dialogo, per fare comunità, veramente concretamente. Non chiudersi al mondo, non sottrarsi ad esso; neanche risolversi tutto nel presente, acriticamente sballottati di punto in punto. Ma conservare un diaframma, una lieve distanza. Credere ancora, aver fiducia. Nel dialogo, nel progetto. Avere il senso e la cultura del silenzio; come dell’ascolto. Intervenire a un po’ piegare le cose, a far prendere una via di formazione. Non i progetti capitali, di riordino del mondo. Ma localmente fare esperienza e comunità. Progettare ancora. Rinunciare a qualsiasi idea di grandioso, di impatto forte alla percezione. Un tratto, una traccia, un solco…

D – “…un debordare intorno, in cui il compositore è in una condizione di attesa vigile”. Questo è ciò che si legge in una delle presentazioni che la riguardano. Nel “Deserto dei Tartari” le truppe attendevano ossessivamente la loro occasione. Quando arrivò, era troppo tardi. Non è che, per caso, la nostra è già passata e non ce ne siamo accorti?

R – Lei mi propone questa espressione, “debordare intorno”, di cui ora non riesco a ricordare il contesto, e la leggo così. Mi richiama il senso della materia al confronto con la macchina compositiva. Per quanto mi riguarda, quando mi dispongo a comporre, un primo schema, anche piuttosto elementare, muove la materia a prendere una forma, a occupare uno spazio, ad assumere certe estensioni. La materia si fa intorno, si estende, dilaga, deborda intorno. Quando muovo a comporre ho questa idea. Che i miei piani, da cui sempre parto – abbozzi molto semplici, comunque, all’inizio -, offrono occasione a qualcosa di prendere spazio, di assumere una forma, di farsi in qualche modo figura. Qualcosa fiorisce, si apre, viene fuori, si distende.

Il piano compositivo si rende quindi molto preciso, attento, articolato, entra in dettagli; ma a molti livelli viene al confronto con il risultato che va apprendendosi. Si forza un passo e si attende ascoltanti. Un gioco studiato di pressioni ed attese.

L’ascolto, che così viene a essere parte del procedere compositivo, riduce ogni volontà di essere prescrittivi, impositivi rispetto alla materia. La materia sa debordare il piano compositivo, oltrepassarlo – “debordare intorno” -, rivelare qualcosa di non pensato, di non espresso. Cogliere queste vie di configurazione del senso, che sono strade altre, non segnate inizialmente, ma rispetto a cui bisogna rendersi sensibili, vigili, perché utili ad alimentare un’altra, ennesima mappa della composizione cercata, tentata, è difficile, perché si tratta di essere molto sottili rispetto all’ascolto.

Questo prendere le strade sottese, latenti, è sempre immerso, inserito, per me, in un senso della cura per la forma, che ritengo debba essere sempre tenuto presente. Si tratta di trovare per approcci progressivi, per approssimazioni, via via che si procede, una forma globale larga, elastica, sensibile, capace di contemplare, prevedere, infine, anche queste derive, queste anse del tempo. Un ambiente per gli svolgimenti trovati, individuati, emersi, raccolti. Non una forma stretta, ma un ambiente.

I materiali che agisco, gli oggetti che ritrovo e che si propongono alla percezione, pur netti per certi versi, puliti e sobri, sono, per altri lati, aperti a sciogliersi in altro, recano aspetti di fluidità, che si riscontrano in un senso generale, che secondo me si realizza, infine, di qualcosa che muove e si trasforma trascorrendo lentamente, senza fratture recise, come in un unico respiro formale.

Lei mi dirà, come con la domanda suggerisce: ma a chi importa questa cura per il gioco sottile della formazione, questo volersi muovere sul filo del poco, del niente, del millimetro, del quasi-nulla? mentre tutto ormai si regola secondo misure diverse, a spanne?

Solitari custodi del niente, del quasi-nulla. Trepidanti ogni volta, a varare questa nave incerta: precaria per se stessa; non solo per il suo essere fuori-luogo, fuori-tempo, inaccetta, inattesa, ospite sgradito; precaria perché si vuole che sia così: non una parola finale-conclusa, ma discorso aperto e interrogativo: ricerca di rapporto e dialogo; e tutto questo dalla prospettiva del mare aperto o del deserto, della frontiera lontana e dimenticata.

Di fronte è quel silenzio assordante che è la folla, il rumore costante; ovunque la metropoli vorace. Comunque bisogna varare questa nave incerta, carica di possibile e di indefinito, tremante di sensi raccolti e mai del tutto risolti.

D – “Sotto i colpi del sole di ferro” (1996) per mezzosoprano, baritono e due percussionisti; un’opera sperimentale di teatro-musica dedicato al tema del tarantismo nella cultura salentina e più in generale al tema della transe (su testo di Salvatore Colazzo). Cosa è rimasto secondo lei di quella cultura e di tutto ciò che sociologicamente implicava (accesa spiritualità, condivisione sociale del rito magico – religioso ecc.)?

R – Non è rimasto nulla. Non amo molto parlare di questo, del revival che ha incontrato il tema della transe e del tarantismo, in rapporto alla mia terra, al Salento da cui provengo, dove sono cresciuto. Questo revival commercialissimo, quasi compensatorio delle grandi difficoltà, sociali ed economiche in cui ci si dibatte.

Quando scrissi quell’opera, che in versione per voci cantanti e percussioni reca quella data, ma nella versione per recitanti e percussioni è di diversi anni prima, pochi parlavano del tarantismo. Il tema delle minoranze linguistiche salentine, poi, della Grecìa Salentina, era ignorato dai più. Salvo qualche intellettuale isolato, sembrava anticaglia. Men che mai si interessava a questi temi la politica, c’era molto disinteresse da parte delle amministrazioni pubbliche.

Quell’opera è stata una sorta di prima prova di trattamento del tema in termini artistici e sperimentali. E niente mi pare l’abbia seguita su questa strada. Un’opera di teatro-musica assolutamente sperimentale. In essa è il senso della dispersione, della somma e della stratificazione materica, della poliritmia, del rumore nudo. Tutto è in questo stato di materia presente, molto calda, torrida a volte, e anche il testo deriva da un autore all’altro, mescolando elementi dai versanti letterario, sociologico, antropologico della transe.

Una rappresentazione problematica, aperta, sospesa, certo non risolutiva, fortemente interrogativa. Anche l’epilogo, che io amo molto, fatto di poco, e così lentamente, inesorabilmente inviato al silenzio, passando attraverso il gesto percussivo ripetuto, semplice, quasi primario, un respiro della pelle, non mi pare segno terapeutico: un assumere il vuoto e il silenzio, sì, il gesto ridotto che s’annulla. Il senso del vuoto. Non dell’accordo, del recupero dell’assurdo, del reintegro del dissonante. Vuoto: il vuoto finalmente ascoltato.

D – Culture e tradizioni millenarie che, come sempre, anche nel nostro tempo vanno alla guerra e che, per necessità di sopravvivenza, hanno bisogno l’una dell’altra e per ciò s’incontrano. Come la vede lei questa paura terribile di noi occidentali, di essere invasi?

R – Mi colpisce molto. Soprattutto quando la noto nella voce dei giovani. Questi giovani, a volte allievi, che hanno paura del nuovo, che ormai assumono come impossibile l’incontro, che esprimono la necessità di considerare la separazione e l’ignorarsi reciproco come salutari, perché l’incontro culturale non è dato, impossibile, chimerico. Mi addolora. Non so se abbiano una qualche ragione. Se le illusioni siano tutte mie. Non è il mio mondo. Il mio mondo è quello che fa riferimento alla necessità di rendersi nomadi, aperti, di incontrare l’alterità. Questo. E ora, invece, questo stare petrosi, duri, non dico ostili, ma riottosi all’incontro. Bisogna attivarsi a realizzare occasioni di incontro. Non solo personalmente testimoniare una disponibilità ad aprirsi all’altro, ma dare forma a questa volontà, condividerla e strutturare possibilità concrete. Rendere minoritari i fondamentalismi, le posizioni violente, individuare nel dialogo una possibilità vera, praticata. Mi rendo conto che tutto questo è molto complesso, e mentre muoviamo a realizzare qualcosa, noi stessi evidenziamo molte contraddizioni, nel nostro comportamento così animato da buona volontà. Ma vale la pena. Bisogna tentare. E non fermarsi alla prima difficoltà. Essere ottimisti. Puntare avanti.

D – Domanda di rito: cosa faranno i suoi allievi, una volta conseguito il diploma di composizione?

R – Io lavoro molto rispetto ai miei impegni didattici, che si svolgono soprattutto in Conservatorio, da poco anche in ambito universitario. Profondo molte energie, per un’attività che reca anche i caratteri della sperimentazione. La didattica non è soltanto applicativa di conoscenze precostituite, formate, definite, concluse. E’ anche questo, trasmissione formalizzata e controllata, strutturata in termini ordinati e disciplinati. Ma è anche spazio di esperienza: trasmetto qualcosa che posseggo e anche molto che è in via di formazione. Secondo me gli allievi percepiscono molto questo stato di apertura controllata del lavoro didattico, questo senso dell’utilità di provarsi in direzioni nuove, ma avendo a mente un obiettivo da raggiungere, scoperte da provare o mettere alla prova. Io sento di arricchire molto il mio bagaglio di conoscenze ed esperienze declinando così l’attività didattica. Mi pare che anche gli allievi trovino un senso forte in quello che facciamo, un’occasione di allargamento, approfondimento dell’esperienza; non solo apprendimento in termini tecnici.

Dopo il diploma di composizione avranno tanto da spendere, per i molti anni passati a lavorare, studiare, maturare esperienze. Faranno i compositori: qualcuno promette di ottenere ottimi risultati, riconoscimenti. Altri porteranno questa prospettiva particolare nel loro lavoro di interpreti; o nel lavoro musicologico. Altri ancora si rivolgeranno all’insegnamento. Comunque avranno assunto conoscenze; e un metodo, quello dell’apprendimento nella forma della scoperta, del lavoro condotto non per vie preconcette, ma per vie sperimentali.

Ritengo che abbiano molte chance, per questo, da mettere in campo.

D – Cosa ne pensa della riforma dell’istruzione musicale promulgata dall’attuale governo?

Nella riforma recente, dell’istruzione secondaria di secondo grado, che riguarda i licei e l’istruzione professionale, compare il liceo musicale, che rappresenta una novità quasi assoluta, concepito in termini così strutturati, all’interno dell’organismo dell’istruzione secondaria. Il senso della sua presenza viene anche a seguito di quanto va coinvolgendo i conservatori, in attuazione della riforma del ’99. I conservatori, infatti, sono chiamati, in prospettiva, a occuparsi soltanto della formazione musicale d’ordine superiore, specialistica, e del perfezionamento musicale. La riforma dei conservatori lascia così aperta la questione di come intervenire sul segmento di mezzo e inferiore della formazione musicale. L’idea del liceo musicale è quindi complementare a quanto ha sommosso il conservatorio a partire dalla legge di riforma del ’99. Più in generale bisogna rilevare come, ad esclusione del liceo dedicato, nelle altre tipologie di scuole superiori, secondo la nuova riforma, la musica sia di fatto assente. Compare l’arte, un po’ in tutte; ma la musica no. E bisogna poi ricordare come lo studio della musica, in una qualche forma, scompaia anche dall’ex Magistrale, dove è sempre stato presente. Nel liceo delle Scienze Umane, che si fa erede del vecchio Istituto Magistrale, non si impartisce più l’insegnamento della musica o dello strumento musicale, se non – sembrerebbe – in forme opzionali.

La musica, sembra di capire, non è tenuta come parte importante della formazione culturale, sulla via dei percorsi superiori. Qualcosa di poco rilevante, una ramificazione secondaria. A meno che non si faccia una scelta precisa in quella direzione, iscrivendosi al liceo musicale. La musica non ha sufficiente portato culturale e formativo per essere presente nei piani di studio, con un suo ruolo di respiro importante.

Per quanto riguarda i licei musicali c’è comunque molto da inventare, impiantare. Non ho molta fiducia per il motivo che un fatto ricorrente negli ultimi anni, in materia di riforme scolastiche, è che si tende a realizzarle impegnando pochissime risorse.

Lo si vede nei conservatori, che si stanno riformulando radicalmente in vista della progressiva messa in opera della riforma che li riguarda, promulgata già nel 1999. Si stanno aprendo ovunque molte esperienze di sperimentazione, per gli studi della fascia superiore, improntate a strutture di concezione universitaria, con trienni superiori e bienni specialistici. Intanto il conservatorio deve conservare la sua vecchia articolazione, dovendo occuparsi, nello stesso tempo, anche delle fasce inferiori, degli insegnamenti di ispirazione tradizionale, secondo modi di impegno e lavoro che ha sempre svolto.

Questo provoca come un doppiarsi della struttura. Ma le risorse umane sono le stesse, e non arriva alcun vero sostegno economico-finanziario da parte del ministero. La situazione è molto difficile e complessa. Si fa moltissimo con pochissimo. Questa è la realtà. Ma quanto potrà durare questo stato di impegno e di fervore per il cambiamento e per il rinnovamento, portato avanti comunque e contro tutti gli ostacoli? E’ necessaria una svolta decisa, nella direzione del sostegno concreto e fattivo al processo di riforma.

D – Quali sono le difficoltà più grandi che incontra nella sua attività di direttore artistico di “Mondi Sonori”? E quali i rapporti con le istituzioni?

R – C’è un grande lavoro di promozione dei temi, intorno a cui lavorare, per ogni edizione, e poi di organizzazione. C’è necessità di un impegno continuo, che a volte diventa duro, faticoso. I procedimenti del lavoro sono abbastanza rodati, dopo tanti anni, comunque per alcuni mesi quest’impegno diventa molto presente, e bisogna rispondere dedicandovi tante ore di lavoro. “Mondi sonori” rappresenta un festival molto particolare, perché muove dall’interno di un conservatorio. Nel caso, il Conservatorio di Trento. Emerge a seguito di alcune tracce tematiche, ma per il contributo di idee e proposta di molti. Di tutti quelli che vi partecipano, nella forma di interpreti, compositori, musicologi. Si definisce per apporti molto orizzontali, e uno dei miei compiti è quello di consolidare quanto emerge, nei tanti apporti, trovando o tracciando relazioni, componendo il tutto in forme che siano convincenti, che riescano a esprimere tutte le implicazioni culturali della proposta, e funzionino dal punto di vista comunicativo. E’ un lavoro difficile, inoltre, perché deve contemplare tanti equilibri. Il conservatorio di Trento è stato sempre molto motivato a riconoscersi in questa iniziativa, a promuoverla e sostenerla in varie forme. Anche istituzioni cittadine, come il Comune, vi portano un qualche contributo. I giornali, i media in genere sono molto attenti all’iniziativa, che è molto seguita. C’è attenzione da parte del pubblico e della cittadinanza in genere. Ormai, giunto com’è, con il 2005, all’ottava edizione, il festival è diventato un appuntamento atteso. “Mondi sonori” fa parte delle iniziative culturali importanti che si svolgono in provincia e in regione. E c’è attenzione evidente anche a livello nazionale.

D – Un suo grande desiderio…

Non saprei. Tanti desideri e sogni, che s’intrecciano nel mio lavoro, traversano la mia vita tutti i giorni. Ma nulla di assoluto cui mirare. E nulla che possa dirsi in poco, in breve.

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INTERVISTA

7 – COMPOSITORI CONTEMPORANEI: TRENTO

C. COLAZZO E LA RELAZIONE CON LA PROPRIA CREATIVITA’

Aprire la musica al confronto culturale e sociale

intervista a Cosimo Colazzo, a cura di Salvatore De Salvo – Musicologo

D – Ci può dire del suo percorso di compositore, partendo da quando era — presumo — allievo di Conservatorio, sino a che ha intrapreso la attività professionale?

R – Non affronto quanto riguarda — vi accenno soltanto — il rapporto con mio padre, musicista, che mi ha avviato, piccolissimo, alla musica. La musica coincide sostanzialmente, radicalmente con la mia vita. Qualcosa di più e di diverso, quindi, dal frequentare una scuola. Qualcosa di più e di diverso di un mestiere.

C’era sempre un altrove, che mi faceva problema, che mi attraeva. Sin da quando ero studente. E in certo senso questo è stato il mio atteggiamento di sempre, qualcosa che mi è rimasto, al di là della scuola. L’agire contemporaneamente in più contesti, uno prossimo, come della vita contingente, un altro diverso, dell’alterità, da ricercare, perché apre a nuovi mondi. Credo che quest’atteggiamento corrisponda a una qualche marca della mia sensibilità: l’idea che vale anche ciò che è ordinario e quotidiano; e poi la fantasia, l’utopia, il radicalmente altro: luoghi opposti o solo differenti che tento comunque di coniugare.

A pensarci, anche la mia scrittura è così. Ripulisco sempre più la mia scrittura, da ogni incrostazione effettistica, da ogni sovrastruttura, da ciò che può residuare come contatto con tendenze, mode, insegnamenti, ecc.. Anche un materiale povero, comune, può promuovere un senso nuovo. È una questione di contesti, delle intenzioni che lo animano. Anzi, un tale materiale sa rifrangere una quantità di suggestioni, proprio per la sua storia, per l’esperienza che lo carica, lo polarizza. Così è da cercare lentamente, con pazienza, spesso in dettagli, in varchi inattesi, un percorso di nuove storie, per un qualcosa che non è nuovo in sé, ma è tale per il modo di proporsi, per la volontà, che prende ad animarlo, di concepirsi come in uno stato di “attesa”, o di movimento non diretto, aperto a molte direzioni.

Da docente, tento — non so se vi riesco — di far intuire come fuori dal mondo della scuola, da ciò che la scuola richiede come uno standard di formazione, c’è altro, di molto impegnativo e difficile, da affrontare, una letteratura vastissima da studiare, e il mettersi in questione direttamente, con la propria creatività. Non so dire se vi riesco, perché so — forse l’esperienza me lo ha fatto capire — quanto siano delicati i meccanismi della didattica, e rendere troppo fluidi i confini delle cose, instabile il terreno, possa essere ugualmente dannoso, portare ugualmente all’impotenza, quando si vorrebbe, invece, esaltare la creatività che ognuno possiede come suo talento. È difficile il lavoro didattico, e bisogna anche qui avere capacità di mediazione, stare insieme dentro e fuori la disciplina.

D – Le influenze degli insegnanti di Conservatorio sulla sua formazione (dal punti di vista tecnico, estetico, ecc.).

R – I miei insegnanti di Conservatorio, certo, m’hanno dato, ma non so in che misura. Dopo il Conservatorio, per la composizione, c’è stato il perfezionamento con Salvatore Sciarrino. Qui riconosco, per certo periodo, un lascito, che ha operato forte dentro di me.

CIÒ CHE VALE, PENSO, È IL LAVORO PAZIENTE, DI SPERIMENTAZIONE LENTA, DI RIFLESSIONE E APPROFONDIMENTO, SULLA PAGINA, ASCOLTANDO IL SUONO, LE MUSICHE, E COSÌ PURE SE STESSI, IL DIALOGO CON GLI ALTRI. Dove nulla è precostituito. Solo la volontà di ricercare a tutt’orizzonte, e insieme il senso della necessità di leggere tutto alla luce di una propria identità, mobile quanto si vuole, ma presente e attiva, in quanto pronuncia di una sensibilità, che traduce e assorbe a suo modo ciò che incrocia ed incontra.

Questo lavoro non corrisponde a un mestiere: ha rapporti con lati oscuri di sé, e con la solitudine.

D – Gli influssi dei musicisti del XX secolo e delle diverse scuole sul suo stile.

R – È difficile dirlo. Dico, Nono… Le ultime opere di Nono, per me, sono liriche, intense, fragili, precarie, s’aprono semprea qualcosa di inatteso, pur essendo fatte di poco. Suoni isolati a volte, appesi non si sa dove, a cosa. Per tutto questo che ho detto, Nono. Altri nomi: dovrei pensarci meglio. Non mi vengono in mente… Feldman, forse. Sento che qualche legame sotterraneo c’è, con Feldman, con il suo suono, che è molto particolare, sospeso, e tenuto come a mezz’aria: immobile, contemplativo, ma anche desto, non compiuto, e aperto a molte trasformazioni.

Poi, dal minimalismo mutuo qualche tecnica, che sento congeniale; ma c’è anche una forte distanza poetica dal minimalismo: un senso dell’interiorità e della soggettività, che è diverso. Il minimalismo è molto vita urbana, ritmo, superficie, geometrie molto contrastate. Mentre io voglio produrre il senso della musica come di un’onda, e di qualcosa che s’inarca per immergersi subito dopo, andare in profondità, in mondi di dentro, e vagare e dilagare.

Di Sciarrino, vale il suo richiamo ai criteri della percezione, il suo senso della forma. Filiazioni dirette, comunque, rispetto a qualche tendenza, a qualcuno, non saprei indicare decisamente. C’è studio portato in tante direzioni, e molto anche fuori della musica. Tutto questo certo innerva anche la mia musica.

D – Lei, come docente, tenta — come ci ha detto — di far intuire che fuori dal mondo della scuola, dagli standard formativi che essa richiede, c’è altro, di molto più impegnativo e difficile, da affrontare, una letteratura vastissima da studiare. Secondo lei, in genere, gli allievi che si diplomano, oggi, al Conservatorio sono in grado di interpretare con sufficiente preparazione la musica contemporanea o c’è ancora una certa difficoltà ad avvicinarsi al linguaggio musicale di avanguardia? È possibile, in sintesi, trovare, oggi, dei buoni esecutori di musica contemporanea, senza dover ricorrere per forza a musicisti di grande esperienza?

R – Rispetto al Conservatorio, alcune cose, in questi anni, a seguito di una legge di riforma che prefigura un cambiamento radicale nel panorama dello studio professionale della musica, e di molte sperimentazioni che vengono messe in opera, stanno cambiando, per aggiornare l’istituzione rispetto a un mondo che muta assai velocemente.

Al Conservatorio di Trento sta per essere varata un’importante sperimentazione, dedicata alla composizione, cui ho lavorato molto. Si tratta di un Triennio superiore sperimentale, che reca il titolo “Composizione e Linguaggi musicali contemporanei”, il quale, come prospetta la denominazione, intende concentrare il lavoro di studio e di ricerca intorno al Novecento e alle produzioni odierne. Muove dall’idea che la creatività compositiva, da un certo punto in poi, quando lo studio si fa approfondito, con forti apporti critici, non può più declinarsi nei termini di una disciplina monolitica, ma DEVE APRIRSI AL MONDO DELLE CREATIVITÀ CONTEMPORANEE, E DECLINARSI, QUINDI, NEI TERMINI DI UN PERCORSO, DI UNA RICERCA ABBASTANZA APERTA E PROBLEMATICA.

Il piano di studi ideato è veramente innovativo, nei contenuti come nella struttura. E anche le intenzioni e le strategie che riguardano la messa in opera del progetto, sono radicalmente nuove e rimescolano fortemente le abitudini con cui si guarda al lavoro in Conservatorio.

Comunque, questa è una posizione che ho sempre tenuto, in tutte le sedi in cui si è discusso delle prospettive che riguardano il Conservatorio nuovo e riformato – non sono per le novità che facciano piazza pulita del passato, che rigettino tutto ciò che è stato, alla stregua di anonima spazzatura.

Per la composizione è un passo importante, che si rivolga decisamente l’attenzione alle creatività contemporanee. Che senso può avere, infatti, una formazione alla composizione che non si ponga attivamente e decisamente la questione di una produttività non più accademica, ma personale, e inoltre in dialogo con quanto si propone come ricerca di linguaggi nuovi, originali, nei contesti artistici?

Detto questo, sono anche convinto che ogni tentativo di innovazione deve fare i conti con le prospettive che il passato continua a proiettare in avanti. Significa interagire con tali prospettive, muoverle, conservare alcune cose importanti, altre destinarle a un’inerzia che le porta a scomparire. Poco utile è un’azione che, per seguire le sirene del nuovo, delle mode, comprima indifferentemente il passato, senza ragionarvi sopra, e tranciando via sprezzantemente ogni rapporto. Più in generale, non mi pare positivo rompere recisamente il filo del rapporto che il Conservatorio ha con la sua storia. Che è una storia non da poco. Questa storia è parte di un’identità, che ora va fortemente riletta, reinterpretata, ma non può essere smarrita, per assumere nuove identità fittizie.

Ma vengo alla sua domanda, in un senso più particolare. È chiaro che è difficile trovare negli allievi interpreti una competenza adatta ad affrontare certe pagine difficili e un po’ ermetiche della musica d’avanguardia. Ma si tratta di capacità e di esperienze che maturano lentamente. E non possono darsi svincolate da uno studio diretto verso il repertorio più abituale. La formazione deve avvenire necessariamente avendo ad oggetto un repertorio e esperienze musicali in certo modo formalizzatesi, stabilizzatesi. E pian piano aprirsi, sapendo suscitare curiosità e forti motivazioni, a quel repertorio, della musica più vicina a noi, che continua a farci problema, a interrogarci, a violare tutte le nostre sicurezze. Non sempre è necessario che la formazione segua una scansione così ordinata, ma è abbastanza ragionevole che si sviluppi seguendo una direzione che va da ciò cui siamo più abituati, per cui ci riesce più facile, naturale, istintivo, al meno noto, che ci risulta perciò difficile, problematico.

La difficoltà che gli allievi hanno con la musica contemporanea, non è la semplice difficoltà del Conservatorio a confrontarsi con linguaggi nuovi. È l’attrito che fanno questi stessi linguaggi rispetto alla percezione abituale delle cose, alle comuni visioni del mondo.

D – Per lei che, oltre agli studi di conservatorio, ha una formazione universitaria umanistica, qual è il rapporto tra testo e note, poesia e musica. Gli studi universitari di filosofia hanno arricchito la sua formazione di musicista o sono stati una esperienza a sé, legata più a un contesto letterario piuttosto che musicale?

R – Ho intrapreso gli studi di filosofia a prescindere dall’Università. Vi ero iscritto, ma le ragioni dei miei studi erano altrove, nel mio lavoro di compositore, appunto. E infatti hanno preso a ramificarsi, via via che procedevano, seguendo direzioni tutte personali. Ogni tanto davo un esame; alla fine mi sono laureato, ma è avvenuto come per inerzia, frutto di un lavoro che non era funzionale a ho un po’ rallentato la mia attività compositiva. Credo sia servito creare questa cesura. La musica è stata fecondata da tutto questo lavorìo che le si svolgeva attorno.

Non penso che la musica in sé sia come un qualcosa di isolato, di limitato, che abbisogni d’altro per rendersi più ricca, articolata, complessa. La musica è un mondo complesso di per sé. Ma avere studiato altro rispetto alla musica, per me, ha mosso le prospettive. C’è questo di positivo nell’aprire la musica, come ogni altro linguaggio, al confronto culturale: che significa osservarla in un contesto più vasto e da punti di vista diversi. Significa, in definitiva, rendere se stessi dinamici, fluidi, esercitare la sensibilità verso le situazioni aperte, mobili.

D – Approfondendo quanto già da lei espresso in relazione a una precedente domanda, le chiedo: oggi, alla soglia del terzo millennio, esistono ancora regole formali per il compositore o tutto è lasciato alla libera creatività?

R – La creatività non può darsi senza forma, senza regole. Ce lo insegnano i più grandi rivoluzionari, Schönberg, Stravinskij, e altri. Guardi, il discorso è lungo, ma anche un po’ ozioso. Prenda Schönberg, per fare un esempio. Non c’è artista, forse, più disposto, a livello di poetica, ad accettare l’idea della composizione quasi come dettato interiore, qualcosa che sgorga fuori per necessità interiore, d’istinto, potremmo dire. E nello stesso tempo Schönberg è uno spirito analitico. Che osserva minuziosamente, e indaga, e studia l’intera letteratura musicale. Che osserva minuziosamente se stesso quando compone. E che richiama l’attenzione, perciò, sulla necessità di articolare il proprio pensiero musicale, di esporlo in respiri formali, di distenderlo in progetti.

D – Nel periodo successivo alla produzione delle opere di cui si è appena parlato, lei entra in una fase che lei stesso ha definito di “laboratorio”, ossia il confronto diretto con alcuni grandi autori classici, da Schubert a Debussy, da Beethoven a Ravel. Questo confronto musicale si concretizzerà con la creazione di una serie di composizioni, cito per tutte In camera oscura (per pianoforte ed ensemble), che meriterebbero un approfondimento.

R – Qui bisogna riconoscere un’influenza da parte di Sciarrino, e tuttavia segnalerei anche alcuni punti di distinzione. Il suggerimento iniziale — magari non detto, ma dato nel nostro rapporto di allora — viene certo da Sciarrino, con il quale conducevo anche delle esercitazioni mirate proprio ad analizzare creativamente musiche del passato. Quale migliore analisi che un lavoro condotto all’interno delle opere a costruire possibili altre direzioni per esse, ma sempre coerenti con il linguaggio originario? Era un po’ questo il lavoro che conducevamo al livello di queste esercitazioni. E poi c’era l’esempio di alcune sue opere, come Anamorfosi per pianoforte, che mette insieme due pezzi diversi, e li ricompone in uno, tentando di evitare qualsiasi senso della sutura, volendo ridonare l’impressione di una nuova unità. Anamorfosi è un pezzo breve. Io mi sono provato in opere di lunghe dimensioni.

Fare questi lavori per durate lunghe, per grandi arcate formali, per scrittura originale che non ha niente di ludico. C’è qualcosa che è come uno sprofondamento, un perdersi nei labirinti della scrittura.

All’interno della mia serie di opere si dà poi un’evoluzione, che ora le segnalo. Introduzione e variazioni (da F. Schubert) per flauto e pianoforte, si basa sull’osservazione di varie opere di Schubert: alcuni pezzi per pianoforte a quattro mani, e il famoso Introduzione e variazioni per flauto e pianoforte. Il pezzo per flauto dà come il decorso per la mia composizione. Gli altri pezzi, quelli per pianoforte a quattro mani, tutti accuratamente selezionati sulla base di alcune affinità figurali e motiviche, forniscono i materiali. Non è così semplice come lo descrivo. Si tratta di avere quest’impianto fondamentalmente, e poi di verificare via via come si sviluppi questo lavoro, che consiste nel riplasmare un linguaggio, quasi reimmergendosi nell’autore che si trascrive. Una reimmersione che non consiste nell’identificarsi per suggestione, ma nell’identificarsi per un lavoro di accanita ricostruzione di certe peculiarità di linguaggio e di tecnica, che vengono ritrovate per osservazione, comparazione, studio, lancio di ipotesi e verifica accurata di queste ipotesi.

UN’ALCHIMIA TUTTA RAZIONALE, IN CUI PERÒ INTERVIENE L’INTUITO, A LANCIARE PONTI, A INDIVIDUARE RAPIDAMENTE POSSIBILI STRADE, E A PROVARLE. Alla fine è riuscito un pezzo totalmente, integralmente alla Schubert, con materiali tutti schubertiani; non “alla maniera di”; proprio, invece, di Schubert. L’io di chi trascrive è completamente scomparso.

È un materiale che parla per sé. Qualcosa, anche in questo caso, per questi risvolti, che mi riguarda da vicino. Non solo esercitazioni.

Un altro mio pezzo che muove da analogo modo di fare, e forse ancora più sorprendente, per come fiorisca – quasi come una produzione spontanea e naturale, quando setaccio delle scritture ‘originali’ — è Voiles englouties par Ondine (da Debussy) per pianoforte. Un pezzo del 1988. Qui lavoro sui Préludes di Debussy, in particolare su Voiles, su La cathédrale engloutie, e su Ondine.

Anche questo pezzo è singolare, un rifacimento di Debussy, si potrebbe dire, per mano di Debussy. Anche le didascalie, tutte in francese, vengono da Debussy.

Nella sua domanda segnalava In camera oscura per pianoforte e ensemble. È un pezzo un po’ diverso. È una ‘fantasia’ sull’idea di “studio” per pianoforte. Lavoro sugli Studi di Debussy, sugli Studi di Bartók, e inoltre su alcuni concerti per pianoforte e orchestra, molto virtuosistici per il solista, di Beethoven, di Ravel, di Bartók. In un discorso più libero, riapplico alcune delle modalità compositive che ho indicato descrivendo i pezzi precedenti. Si viene così proiettati in un ambito di rivisitazione storica della categoria “studio”, e forse anche della categoria “virtuosismo pianistico”, il tutto mosso da una scommessa di virtuosismo compositivo.

Si respira, tuttavia, qualcosa di inquietante. Il pezzo realizza innesti di un autore sull’altro, trapassi, scivolamenti di un’epoca nell’altra, commistioni, e rivela qualcosa di mostruoso: quasi la mano compositiva volesse provarsi dappertutto, senza limiti. È come un lavoro di ingegneria genetica. Proprio così. Ingegneria genetica applicata alla composizione.

Un altro pezzo del genere è Sequenza Capriccio per violino solo. L’ho scritto poco più che ventenne, e testimonia anch’esso questo modo del lavoro compositivo, per innesti sottili su scritture già prodotte. Nel caso il pezzo alchemicamente innesta Berio con Sciarrino.

Successivamente la mia composizione, pur restando molto attenta agli aspetti formali, alla cura del dettaglio di costruzione, ha abbandonato quest’aspetto del gioco sottile con la scrittura già testimoniata. Ma ricordo con forte partecipazione quel periodo, che ha dato luogo, secondo me, a una costellazione di quattro-cinque lavori di qualità: espressione di rigore e virtuosismo compositivo, e anche deriva sperimentale; tuttavia leggeri: abbandonare tutto ciò che non serve, i mezzi e le tecniche agiti anche per empirica determinazione.

Un muovere in molte direzioni: verticalmente verso il fondo e le linee di forza essenziali, verso l’alto e le visioni aeree, ma anche orizzontalmente, a sondare le contingenze, le occasioni che s’aprono e si offrono via via che si procede, un passo dietro l’altro.

D – La sua collaborazione con esecutori trentini e con la città di Trento è proseguita per molti anni. Ad esempio, il coro Castelbarco di Avio, diretto da Luigi Azzolini, ha inciso su CD Amara è la morte, per coro misto a cappella, del 1996. Sempre nel capoluogo trentino, al Teatro Sperimentale (1997), è avvenuta la prima esecuzione di Sotto i colpi del sole di ferro, per mezzosoprano, baritono e percussioni. In questo caso gli interpreti non erano trentini, venivano da vari parti d’Italia: le voci di Susan Long Solustri e del bravissimo Roberto Abbondanza (questi interprete anche, qualche anno dopo, di un’altra sua opera, Il latifondo magico, ad “Europa Festival”), due percussionisti lucani. Ma alla produzione avevano partecipato alcuni enti trentini. L’anno seguente diversi interpreti locali hanno eseguito a Trento il Secondo Quartetto, per archi. E poi negli anni si è semmai incrementato il rapporto con interpreti locali. Comunque la domanda può essere innanzitutto d’ordine generale: che tipo di rapporto si crea fra il compositore di un’opera e l’esecutore? Che margine di interpretazione lei concede agli interpreti delle sue opere? Partecipa sempre alle prove? Poi, per entrare nel particolare della situazione culturale e musicale in Trentino, se può darci una sua osservazione sul mondo musicale di questo territorio.

R – Aggiungerei, a quelle da lei citate, le recenti (1999 e 2000) esecuzioni di L’attesa per tre voci recitanti, clarinetto violino e violoncello, su testi miei da Simone Weil. Alcuni miei interventi come pianista, in cui ho eseguito mie opere, in contesti molto interessanti, come alla Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea. E anche altre situazioni.

A Trento c’è un buon livello generale, tra gli esecutori, con alcune individualità di sicuro spicco. Come altrove, probabilmente. Resta ovunque, penso, difficile, il rapporto tra esecutori e compositori. Non sempre gli interpreti sono disposti a mettersi in gioco, rispetto a partiture nuove, che magari sperimentano atteggiamenti esecutivi nuovi. La mia musica, specie le opere più recenti, non spingono le possibilità esecutive all’estremo, tuttavia hanno a che fare con un nuovo modo di suonare insieme, in cui conta molto l’ascolto reciproco, il ben soppesare le dinamiche, il far respirare la musica, il trovarla in momenti di scarto, di intervallo. Essendo fatta di eventi molto sottili, di una forma mobile, tendenzialmente aperta, si gioca tutta nell’equilibrio, nel creare un ambiente e tenerlo in un equilibrio dinamico; non nell’addensamento, non nell’imporsi alla percezione, ma nel chiamare la percezione e l’ascolto a partecipare.

Fra compositore ed esecutore c’è spesso un rapporto difficile, come un diaframma preventivo, che si crea a difesa delle rispettive prerogative. Se la relazione procede positivamente questo diaframma cede il passo alla comunicazione. Non sempre questo succede, ma a volte sì. Io concedo margini all’interpretazione, nel senso che non mi presento alle prove o quando vengo richiesto di ascoltare come procede lo studio di un mio pezzo, con una serie di idee da imporre. Tento di essere sgombro da qualsiasi idea preventiva. Tento di ascoltare la mia musica come qualcosa di nuovo, di altro. Naturalmente l’operazione di pulizia da qualsiasi mia idea precedente sul pezzo non è del tutto possibile, anche se in parte accade: stare in rilassamento e in abbandono. È anche una specie di finzione, tuttavia molto utile, perché ha un suo effetto pratico. TRA QUEL CENTRO DI PENSIERO CHE NON PUÒ ESSERE ABRASO E IL PUNTO DI VISTA DISCOSTO, PERIFERICO, DIVERGENTE CHE HO VOLUTO ASSUMERE SI CREA UNA CORRENTE CHE SA PROVOCARE QUALCOSA, FORSE NUOVE IDEE, E SOPRATTUTTO APRE A COMUNICARE. Crea un ponte, attraverso cui ci si parla. Si mettono a fuoco idee.

Penso sia utile sia per il compositore che per l’interprete. Comunque quello del rapporto tra compositore e interprete è un capitolo difficile; spesso a soffrirne è il compositore. A volte le esecuzioni di musica contemporanea vengono vissute come un dovere, qualcosa da fare, ma da sbrigare rapidamente, con il minor danno possibile, in termini di tempo e di guadagno economico.

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Note biografiche

Cosimo Colazzo, nato a Melpignano, in provincia di Lecce, nel 1964, attualmente vive e lavora a Trento. Si è diplomato in pianoforte al Conservatorio di Lecce nel 1983, in composizione al Conservatorio di Roma nel 1984, e in direzione d’orchestra al Conservatorio di Milano nel 1985. Inoltre si è laureato in filosofia, nel 1995, all’Università degli studi di Lecce, con una tesi di laurea sull’idea di forma e di creatività in Goethe, dal titolo Goethe, ovvero la forma come organismo. Dalla teoria della natura, verso una teoria dell’arte e della letteratura. Ha ottenuto diversi premi di composizione, nazionali e internazionali. Ha seguito corsi di perfezionamento di composizione e di direzione d’orchestra con importanti musicisti. Innanzitutto si è perfezionato in composizione con Salvatore Sciarrino, frequentando un’accademia triennale a Città di Castello. Ha partecipato ai Ferienkurse di Darmstadt nel 1988. Nello stesso anno ha seguito un corso estivo di direzione d’orchestra, a Szombathely, in Ungheria, dedicato al repertorio contemporaneo. Sempre nell’estate 1988, ad Avignone, in Francia, ha seguito, avendo, peraltro, ottenuto una borsa di studio, un seminario di direzione d’orchestra tenuto da Pierre Boulez, nell’ambito dei corsi e seminari, dedicati per quell’anno all’opera di Boulez, organizzati dal Centre Acanthes di Parigi. Ha ricevuto commissioni, per la composizione di opere nuove, da parte di numerose istituzioni musicali. Sue opere sono state eseguite in diversi paesi europei, e trasmesse dalla RAI, per radio e per televisione. Sono incise in CD, l’opera di teatro musicale da camera Sotto i colpi del sole di ferro, per mezzosoprano, baritono e percussioni, testo di Salvatore Colazzo, interpreti il baritono Roberto Abbondanza, il mezzosoprano Susan Long Solustri, alle percussioni Gabriele Maggi e Giuseppe Basile; e Amara è la morte, due pezzi per coro misto a cappella, su testi di tradizione orale in griko del Salento, interprete il Coro Castelbarco d iAvio (Tn), diretto da Luigi Azzolini. Alcuni anni prima, nel 1989, era apparso in un LP, dedicato a diversi giovani autori di musica contemporanea, pubblicato dalla casa discografica Quadrivium, il brano Dune per quartetto di clarinetti, interprete il Quartetto Claravoce.

Cosimo Colazzo insegna Armonia a Contrappunto al Conservatorio di Musica di Trento, dove attualmente è coordinatore del “Dipartimento di musica” contemporanea. In quest’ultima veste è stato promotore di diverse iniziative, quali conferenze, corsi e seminari, e, soprattutto, a partire dal 1998, del festival di musica del ‘900 e contemporanea, “Mondi Sonori”. E’ docente a contratto di “Grammatica e Morfologia della Musica” all’Università di Palermo, corso di laurea in Discipline della Musica.

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